Relazioni

1. LA santità alla scuola con don bosco - Aldo giraudo

La santità alla scuola con don Bosco

 Aldo Giraudo

📄Per comprendere quale idea della santità avesse don Bosco, non possiamo fare a meno di riferirci a un episodio da lui raccontato nella Vita di Domenico Savio.

Un giovane, appena arrivato nella comunità di Valdocco, in ricreazione stava osservando i giochi dei compagni. Era Camillo Gavio, aveva un aspetto fragile, un volto pallido, uno sguardo serio. Soffriva problemi cardiaci e si trovava convalescente. Domenico, premuroso, lo avvicinò, si mise a parlare con lui, gli domandò il motivo della sua malinconia. “Ho fatto una malattia di palpitazione, egli rispose, che mi portò sull’orlo della tomba, ed ora non ne sono ancora guarito”. “Desideri di guarire, non è vero?”, riprese Domenico. “Non tanto, desidero di fare la volontà di Dio”. Era un’affermazione inattesa che rivelò a Domenico la maturità spirituale del compagno, per cui continuò dicendogli: “Chi desidera fare la volontà di Dio, desidera di santificare sé stesso [cf. 1Ts 4,3]; hai dunque volontà di farti santo?”. “Questa volontà in me è grande […]; ma io non so cosa debbo fare”.  “Te lo dirò in poche parole”, rispose Domenico: “Sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri” (Vite, 84).

Quando citiamo questo episodio, ordinariamente, ci fermiamo qui. Ci piace questa bella e significativa affermazione, questa accentuazione gaudiosa della santità salesiana, e pensiamo sia sufficiente da sola ad esprimere il tipo di perfezione cristiana promosso da don Bosco. Dimentichiamo che il discorso di Domenico continuava, suggerendo un programma di santità molto articolato e impegnativo:

“Noi procureremo soltanto di evitar il peccato, come un gran nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore; procureremo di adempiere esattamente i nostri doveri, e frequentar le cose di pietà. Comincia fin d’oggi a scriverti per ricordo: Servite Domino in laetitia, serviamo il Signore in santa allegria” (Vite, 84).

In queste espressioni abbiamo condensato tutto l’insegnamento spirituale di don Bosco. Infatti egli era convinto che lo “stare molto allegri” fosse frutto della grazia divina che inonda e plasma il cuore e la mente di chi si decide a mettere Dio al centro della propria vita, nel dono radicale di sé, animato dalla carità, per cui non solo si preoccupa di evitare ogni minimo peccato, ma è vigilante e attivo nel discernere e compiere sempre la divina volontà e nell’adempiere con amore tutti i propri doveri quotidiani – quelli specifici del proprio stato di vita. Questi doveri egli li esegue con la sollecitudine, la precisione e l’amabilità che derivano da un reale distacco del cuore dal “mondo”, dai propri interessi, per potersi donare in piena libertà a Dio e ai fratelli, sempre disponibile e felice di fare “ciò che piace a Dio” (come direbbe san Francesco di Sales), di servirlo con amore e gaudio spirituale. Solo chi è rigenerato e unificato interiormente dalla carità può servire in laetitia, come la vergine Maria – “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola” (Lc 1, 38) – e come il Cristo, che donò sé stesso per la salvezza dell’umanità – “Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7). La dedizione a Dio, fonte di ogni bene, è sorgente di felicità piena e duratura.

Insomma, la bella affermazione di Domenico Savio acquista il suo significato pieno soltanto quando noi la collochiamo in un contesto più ampio: quello di tutto il dialogo in cui è stata pronunciata, quello rappresentato dal cammino spirituale personale del santo giovane, quello dell’articolata proposta formativa fatta da don Bosco ai giovani e del fervoroso ambiente educativo dell’Oratorio di quegli anni.

Per quanto ispirata a varie tradizioni spirituali cristiane, soprattutto a san Francesco di Sales e a sant’Alfonso de’ Liguori, la santità insegnata da don Bosco ha una sua connotazione inconfondibile ed è frutto di un processo spirituale caratterizzato da passi progressivi, in tensione crescente verso la pienezza della carità e contraddistinto da alcuni momenti decisivi e da nodi dinamici caratteristici: la decisione battesimale; la facilità; la mortificazione di sé; il vivere alla presenza di Dio.

1. “Darsi a Dio” per tempo, con totalità

Già nella prima edizione del Giovane provveduto (1847) constatiamo lo sforzo di don Bosco per insegnare ai ragazzi dell’Oratorio che si è veramente felici, realizzati in tutte le proprie potenzialità, solo se ci si dona a Dio, cioè ci si converte a Lui con tutto se stessi e “per tempo”, senza tramandare la conversione in età avanzata, perché “se noi cominciamo una buona vita ora che siamo giovani, buoni saremo negli anni avanzati, buona la nostra morte e principio di una eterna felicità” (GP 6-7). “Coraggio adunque, miei cari, datevi per tempo alla virtù, e vi assicuro, che avrete sempre un cuore allegro e contento, e conoscerete quanto sia dolce servire al Signore” (GP 13).

Darsi alla virtù” (cioè a una vita buona e santa) e “servire il Signore”, sono innanzitutto il frutto di una presa di coscienza, di una illuminazione interiore e della conseguente decisione di scuotersi dall’apatia, dalla mediocrità o dall’abitudine al peccato, cambiare vita e comportarsi da cristiani autentici, da veri discepoli di Cristo. Don Bosco mise in atto tutte le sue risorse per far nascere nel cuore e nella mente dei giovani questo desiderio e questa determinazione. Infatti, senza tale decisione, senza tale passaggio radicale dall’uomo vecchio all’uomo nuovo, non c’è vita cristiana né si può fare alcun progresso sulla via della perfezione evangelica. Don Bosco sentiva che questa era la sostanza della propria missione, una missione ricevuta fin da ragazzo, come leggiamo nel racconto del sogno dei nove anni: “Mettiti immediatamente a fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù”, “con la mansuetudine e la carità” (MO 62).

Tale obiettivo lo guidò lungo tutto il corso della sua esistenza ed egli cercò appassionatamente di realizzarlo:

(1) illuminando l’intelletto dei giovani attraverso l’istruzione, il ragionamento, la spiegazione della Parola di Dio e la lettura spirituale;

(2) conquistando il loro cuore con l’accoglienza amorevole e cordiale, l’amicizia vera e l’affetto dimostrato, con un amore disinteressato, operativo e con la dedizione educativa;

(3) attraendoli col fascino della sua avvincente personalità, la sua umanità riuscita, l’esempio luminoso della propria vita, unificata e potenziata dalla carità;

(4) inserendoli in ambienti educativi positivi, fervidi e piacevoli, in comunità giovanili accoglienti, serene e ricche di stimoli, adatte ai bisogni e alle attese concrete dei giovani;

(5) facendo loro sperimentare concretamente, attraverso il sacramento della confessione, la gioia e la bellezza della vita di grazia;

(6) sostenendoli passo dopo passo con un’assistenza attenta, comunitaria e personalizzata, con un efficace accompagnamento educativo e spirituale, sul cammino della purificazione del cuore e della mente, della costruzione delle virtù, del gusto per la preghiera e dell’unione con Dio, della comunione trasfigurante col Cristo eucaristico, dell’affettività e dell’oblatività nelle relazioni e dell’operosità umana.

Così essi arrivavano veramente a sperimentare e comprendere la bellezza e la gioia dell’essere cristiani, la “preziosità della virtù”, di uno stile di vita santo, in contrapposizione alla “bruttezza” di un vissuto mediocre, meschino e peccaminoso.

Quello che don Bosco cercava di avviare era, dunque, un processo mirato alla piena realizzazione della loro vocazione personale, sul piano umano e su quello interiore, che riuscisse contemporaneamente a scioglie resistenze e blocchi interiori, a liberare energie spirituali e morali, a donare un equilibrio solido e favorire la piena espansione di tutte le potenzialità.

Don Bosco così aiutava i giovani a entrare con decisione in un cammino battesimale che permetteva loro di far proprie, con volontà ferma e con slancio generoso, le promesse del battesimo, rendendole così efficaci nella vita quotidiana: la rinuncia a Satana, a tutte le sue opere, alle seduzioni del peccato, alle attrattive del male, e la fede in Dio Creatore e Padre, in Gesù Redentore, maestro e modello, nello Spirito santificatore. In tal maniera egli dava loro il senso concreto del primo comandamento: “Io sono il Signore tuo Dio, non avrai altro Dio all’infuori di me”; “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente” (Mt 22,37). Li aiutava a fare in modo che Dio fosse realmente il centro unificante di tutto il loro essere nella sequela di Cristo.

La vita di Michele Magone mostra tutta l’efficacia di questa pedagogia cristiana: il simpatico incontro con don Bosco, che lo accoglie amorosamente e gli offre l’opportunità di uscire da una situazione di povertà e pericolo; lo inserisce in un ambiente positivo, stimolante e vivace; lo aiuta con rispetto a sciogliere i nodi di una coscienza “ingarbugliata”; gli mostra la strada più semplice ed efficace per prendere in mano la propria vita e mettervi ordine. Tutto questo progressivamente e dolcemente. Così Michele si apre alla conversione; nasce in lui la determinazione di “romperla col demonio” (Vite, 122) e di “darsi” a Dio; arriva a gustare la gioiosa esperienza della vita di grazia, che poco a poco, attraverso un’operosa corrispondenza, maturerà e trasfigurerà la sua personalità. La conversione di Michele Magone segna l’inizio di un’esistenza radicalmente nuova e santa, animata da uno slancio generoso e impressionante.

Nella vita di Domenico Savio è ampiamente documentata la determinazione battesimale. I proponimenti della prima comunione, che culminano nella decisione radicale: “La morte ma non peccati” (Vite, 46), vengono ripresi e confermati l’8 dicembre 1854 – “Maria vi dono il mio cuore; fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria siate voi sempre gli amici miei! ma per pietà, fatemi morir piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato” (Vite, 57) – questi propositi diventano sostanza della sua preghiera – “Sì, mio Dio, ve l’ho già detto e ve lo dico di nuovo, io vi amo e vi voglio amare fino alla morte. Se voi vedete che io sia per offendervi, mandatemi la morte: sì, prima la morte, ma non peccare” (Vite, 90) – e saranno riconfermati sul letto di morte: “Ripeto e lo dico mille volte: morire, ma non peccati” (Vite, 98).

È il medesimo movimento di totalità che ha caratterizzato il percorso spirituale di don Bosco stesso, come intuiamo nel racconto delle Memorie dell’Oratorio: quando egli descrive la sua prima comunione e le raccomandazioni della madre – “Sono persuasa che Dio abbia veramente preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono sino alla fine della vita…” (MO 69) –; quando rivela la fecondità interiore del suo affidamento alla guida spirituale di don Calosso – “Da quell’epoca ho cominciato a gustare che cosa sia vita spirituale…” (MO 71) –; quando, soprattutto racconta la radicale consegna di sé a Dio nel momento della vestizione chiericale:

Nel giorno di S. Michele (ottobre 1834) mi sono accostato ai santi sacramenti, di poi il teologo Cinzano prevosto e vicario foraneo di mia patria, mi benedisse l’abito e mi vestì da chierico prima della messa solenne. Quando mi comandò di levarmi gli abiti secolareschi con quelle parole: «Exuat te Dominus veterem hominem suis», dissi in cuor mio: «Oh quanta roba vecchia c’è da togliere! Mio Dio, distruggete in me tutte le mie cattive abitudini». Quando poi nel darmi il collare aggiunse: «Induat te Dominus novum hominem, qui secundum Deum creatus est in iustitia et sanctitate veritatis!», mi sentii tutto commosso e aggiunsi tra me: «Sì, o mio Dio, fate che in questo momento io vesta un uomo nuovo, cioè che da questo momento io incominci una vita nuova, tutta secondo i divini voleri e che la giustizia e la santità siano l’oggetto costante de’ miei pensieri, delle mie parole e delle mie opere. Così sia. O Maria, siate voi la salvezza mia» (MO 101).

Lo spogliamento dall’abito secolare per indossare quello religioso, la contrapposizione tra uomo vecchio e uomo nuovo, accompagnata dalla decisione di iniziare “una vita nuova, tutta secondo i divini voleri”, votata cioè al compimento pieno della volontà di Dio e costantemente orientata alla giustizia e alla santità, sono efficacissimi richiami al cambiamento postulato dal battesimo e dalla sequela di Cristo. Fu una rottura drastica col precedente stile di vita (che, come ci informa don Bosco stesso, non era cattivo, “ma dissipato, vanaglorioso”), accentuata dal racconto del disgusto provato durante il banchetto a cui il parroco lo condusse dopo la vestizione: “Quella gente, quale società poteva mai formare con uno che al mattino dello stesso giorno aveva vestito l’abito di santità, per darsi tutto al Signore?” (MO 102).

La decisione della conversione, per quanto sincera e totale, da sola non basta. Bisogna passare alla concreta riforma morale della propria esistenza e a un cambio di mentalità. Nelle Memorie, don Bosco è chiaro:

Dopo quella giornata io doveva occuparmi di me stesso. La vita fino allora tenuta doveva essere radicalmente riformata. Negli anni addietro non era stato uno scellerato, ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giuochi, salti, trastulli ed altre cose simili che rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il cuore. Per farmi un tenore di vita stabile da non dimenticarsi, ho scritto le seguenti risoluzioni […] (MO 102).

A questo punto vengono elencati sette impegni o propositi relativi a quegli atteggiamenti che don Bosco giudicava irrinunciabili per una effettiva totalità di consacrazione: (1) fuga dalle occasioni di dispersione, dalla dissipazione e dalla vanagloria; (2) “ritiratezza” praticata e amata (intesa come raccoglimento, spirito interiore, vita modesta, appartata e laboriosa); (3) temperanza e sobrietà; (4) impegno per acquisire una cultura religiosa, in contrapposizione a quella mondana come modo per “servire” il Signore; (5) salvaguardia della virtù della castità «con tutte le forze»; (6) spirito di preghiera; (7) esercizio quotidiano della comunicazione pastorale per l’edificazione del prossimo (MO 102-103).

La conclusione del racconto richiama la Promessa per imprimere nell’anima il proposito di servire Dio che Francesco di Sales pone al vertice del cammino di purificazione per suggellare la scelta di servire a Dio solo: “Affinché [quelle deliberazioni] mi rimanessero bene impresse – scrive don Bosco – sono andato avanti ad un’immagine della Beata Vergine, le ho lette, e dopo una preghiera ho fatto formale promessa a quella Celeste Benefattrice di osservarle a costo di qualunque sacrifizio” (MO 103). Il santo savoiardo, infatti, configurava la conversione alla “vita devota”, a un vissuto cristiano radicale, come una personale assunzione e rinnovazione “della promessa di fedeltà fatta in mio nome a Dio, in occasione del battesimo” (Filotea, parte I, cap. XX).

2. È facile farsi santi

Nell’antropologia teologica di don Bosco, l’uomo è creato da Dio per la santità e la comunione amorosa con Lui, una comunione che troverà la sua pienezza nell’eternità, ma che è possibile già in questa vita. Egli era convinto che ogni persona, anche il ragazzo più povero e meno dotato, è chiamata alla santità e può realisticamente diventare santa. Nell’introduzione di uno dei primi volumetti delle «Letture Cattoliche», la Vita di santa Zita serva e di sant’Isidoro contadino (1853), don Bosco scrive:

O voi tutti, che lavorate, che siete aggravati da pene e da travagli, se volete trovare una sorgente inestinguibile di consolazioni, se volete rendervi fortunati, siate Santi! Divenir un santo! direte voi, chi può aspirar a ciò? Bisognerebbe aver tempo per trattenerci di continuo in preghiere, e in chiesa: bisognerebbe esser ricco per poter fare grandi limosine: bisognerebbe essere letterato per poter comprendere, studiare, e ragionare. Errore grande, nostri buoni amici, è questa un’illusione pericolosa. Per farci santi non è necessario d’essere padroni del nostro tempo, nè d’esser ricchi, o letterati. […]

Di quante cose adunque abbiamo bisogno per farci santi? Di una cosa sola: Bisogna volerlo. Sì, purché voi vogliate, potete essere santi: non vi manca altro che il volere. Gli esempi dei Santi, la cui vita ci accingiamo a porre sotto i vostri occhi, sono di persone, che hanno vissuto in condizione bassa, e tra i travagli d’una vita attiva. Operai, agricoltori, artigiani, mercanti, e servi, e giovani, si sono santificati, ciascuno nel proprio stato. E come si sono santificati? Facendo bene tutto ciò, che dovevano fare. Essi adempievano tutti i loro doveri verso Dio, tutto soffrendo pel suo amore, a Lui offerendo le loro pene, i loro travagli: Questa è la grande scienza della salute eterna e della santità (Santa Zita, 6-7).

Don Bosco proclama che tutti possono e devono diventare santi, basta volerlo; in ogni stato di vita ciò è possibile: è sufficiente “fare bene tutto”, vivere cioè da buoni cristiani nella carità, attuare gli insegnamenti evangelici nel quotidiano, sostenendo e soffrendo ogni cosa per amor di Dio e tutto offrendo a Lui.

Questa affermazione della chiamata universale alla santità e della facilità a realizzarla impressionò profondamente Domenico Savio:

Erano sei mesi da che il Savio dimorava all’Oratorio quando fu ivi fatta una predica sul modo facile di farsi santo. Il predicatore si fermò specialmente a sviluppare tre pensieri che fecero profonda impressione sull’animo di Domenico, vale a dire: è volontà di Dio che ci facciamo tutti santi; è assai facile di riuscirvi; è un gran premio preparato in cielo a chi si fa santo. Quella predica per Domenico fu come una scintilla che gl’infiammò tutto il cuore d’amore di Dio (Vite, 61).

Le particolari condizioni interiori in cui si trova Domenico, che pochi mesi prima aveva rinnovato la sua donazione al Signore, spiegano l’effetto profondo suscitato da quella predica. Non si trattò soltanto della reazione entusiasta di fronte a un bel discorso, ma, come ci suggerisce chiaramente don Bosco, di un’esperienza mistica: “Quella predica per Domenico fu come una scintilla che gl’infiammò tutto il cuore d’amore di Dio”. Il dialogo che seguì ce lo conferma e gli aneddoti riportati nel resto del capitolo dimostrano che non era un entusiasmo passeggero o un volontarismo mosso dalle convincenti argomentazioni del predicatore. Fu un’irruzione dello Spirito nell’anima di Domenico, un incendium amoris (per usare il bel titolo del De triplici via di san Bonaventura), un’incontenibile traboccamento della divina carità in un cuore purificato e incondizionatamente disponibile ai “lavori della grazia divina”. Domenico, dunque, non soltanto sentiva “il desiderio” e “voleva”, ma aveva “assolutamente bisogno” di farsi santo, non poteva cioè resistere a questa potente attrattiva della grazia. Certo, fu un’esperienza unica la sua, ma è interessate notare come don Bosco orientò questo desiderio incontenibile che il ragazzo non sapeva gestire. Alla domanda “Mi dica adunque come debbo regolarmi per incominciare tale impresa”, il santo educatore rispose riconducendolo alla vita di ogni giorno:

Io lodai il proposito, ma lo esortai a non inquietarsi, perché nelle commozioni dell’animo non si conosce la voce del Signore; che anzi io voleva per prima cosa una costante e moderata allegria: e consi­gliandolo ad essere perseverante nell’adempimento dei suoi doveri di pietà e di studio, gli raccomandai che non mancasse di prendere sempre parte alla ricreazione coi suoi compagni (Vite, 62).

Cioè, anche in questa situazione spirituale particolarissima e privilegiata, don Bosco ribadisce quanto era solito suggerire a tutti: la santità non è qualcosa di straordinario e difficile; si costruisce nel quotidiano, vivendo da buoni cristiani, nel compimento fedele e amoroso dei doveri del proprio stato – che, nel caso di Domenico, erano quelli tipici di un giovane studente dell’Oratorio: studio, preghiera, obbedienza, bontà verso tutti, purezza, fraternità e allegria tra i compagni, spirito di carità e di servizio. Lo stesso programma è presentato nella biografia di Michele Magone e in quella di Francesco Besucco, nella quale viene sintetizzato in una felice formula: “Allegria, Studio, Pietà. È questo il grande programma, il quale praticando, tu potrai vivere felice, e fare molto bene all’anima tua” (Vite, 195).

3. Mortificazione dei sensi e ascesi apostolica

Nonostante le apparenze, la proposta della santità “facile”, non è per don Bosco un abbassamento di qualità. Infatti:

(1) suppone, come punto di partenza la conversione del cuore e la totalità del “darsi a Dio”;

(2) è connotata da un atteggiamento volitivo e battagliero;

(3) richiede un costante controllo di sé, tramite l’esame di coscienza quotidiano e la pratica regolare e frequente del sacramento della penitenza;

(4) implica un affidamento confidente al “fedele amico dell’anima”, il confessore-direttore spirituale.

L’ascesi come via alla santità era proposta da don Bosco ai giovani, in una prospettiva adatta alla loro condizione, correggendo le possibili derive di una spiritualità malintesa, e riportandoli continuamente alla concretezza del vissuto quotidiano, il quale non va solo accettato, ma abbracciato con gioia, secondo il proprio stato di vita. Egli riprese e applicò alla condizione giovanile la sensibilità umanistica e l’insegnamento di san Francesco di Sales. Presentò così un tipo di mortificazione “positiva”, da cui erano eliminate intemperanze e inutili rigidità, pur rimanendo esigente poiché tutta incentrata sulle situazioni di vita, sui doveri di stato.

Egli considerava un ventaglio molto vasto di doveri, tutti quelli legati alla propria condizione: “doveri di pietà, di rispetto e di ubbidienza verso i genitori e di carità verso tutti” (Vite, 208). Di conseguenza suggeriva ai giovani allievi non digiuni e rigidezze di propria scelta, ma “la diligenza nello studio, l’attenzione nella scuola, l’ubbidire ai superiori, il sopportare gli incomodi della vita quali sono caldo, freddo, vento, fame, sete”, superando il loro imporsi come “necessita” esterne di forza maggiore e accogliendoli serenamente “per amor di Dio” (Vite, 207). Allo stesso livello egli poneva i doveri derivanti dal precetto evangelico della carità: usare “molta bontà e carità” verso il prossimo, sopportare i suoi difetti, “dare buoni avvisi e consigli”; “fare commissioni ai compagni, portare loro acqua, nettare le scarpe, servire anche a tavola […], scopare in refettorio, nel dormitorio, trasportare la spazzatura, portare fagotti, bauli”. Tutte queste cose, secondo don Bosco, vanno fatte “con gioia” e con “soddisfazione”. Infatti, “la vera penitenza non consiste nel fare quello che piace a noi, ma nel fare quello che piace al Signore, e che serve a promuovere la sua gloria” (Vite, 207-208). Dunque, il valore spirituale di queste situazioni esistenziali viene garantito dall’intenzione con cui le si affronta e dalla finalità che loro si assegna: “Ciò che dovresti soffrire per necessita – ricorda a Domenico Savio – offrilo a Dio, e diventa virtù e merito per l’anima tua” (Vite, 75).

Don Bosco concorda con santa Teresa di Lisieux nel prospettare la perfezione come un vivere la carità, ma rendendola concreta nel servizio verso il prossimo, senza interessi egoistici, vivendo amabilmente, sereni e fedeli ai propri impegni anche fra contrarietà e sofferenze. La mortificazione proposta da don Bosco, dunque, è innanzitutto uno strumento ascetico finalizzato al dominio delle pulsioni istintuali, al controllo dei sensi, alla correzione dei difetti e alla costruzione delle virtù. Ma ha anche una connotazione mistica, infatti cresce in proporzione al grado di carità interiore: “Quando l’amor di Dio prende possesso di un cuore, niuna cosa del mondo, nissun patimento lo affligge, anzi ogni pena della vita gli riesce di consolazione. Dai teneri cuori nasce già il nobile pensiero che si soffre per un grande oggetto, e che ai patimenti della vita e riservata una gloriosa ricompensa nella beata eternità” (Vite, 206-207).

La prospettiva amorosa nella quale don Bosco propone l’ascesi dei doveri si radica in quel “darsi tutto a Dio”, di cui abbiamo parlato, come forma sostanziale (battesimale) della vita cristiana, con decisione e slancio. Da tale movimento interiore scaturisce necessariamente un vissuto di carità gioioso e ardente, un intenso e sereno fervore operativo. Questa assoluta determinazione di dono, che fa entrare il cristiano in quello stato di piena obbedienza al Padre proprio del Cristo, nella condizione di servo liberamente assunta per amore, illumina di luce nuova il senso e il valore delle azioni quotidiane.

Esemplare in questo senso è l’esperienza di Michele Magone: se prima egli abbandonava con fatica l’amata ricreazione per andare a compiere i suoi doveri, sentiti come un peso (Vite, 119), poi lo si vedrà “correre il primo in que’ luoghi ove il dovere lo chiama”, col desiderio di regolarsi “costantemente bene […] con applicazione e diligenza”.

Domenico Savio, fortemente emozionato per l’incontenibile esperienza interiore scatenata dalla predica sulla santità e pressato interiormente dal “bisogno” “di essere tutto del Signore”, si sentiva portato “a far rigide penitenze, passar lunghe ore nella preghiera”. Don Bosco invece lo esortò a mantenere “una costante e moderata allegria”, “ad essere perseverante nei suoi doveri di pieta e di studio”, “a prendere sempre parte alla ricreazione coi suoi compagni” (Vite, 62-63). Nello stesso tempo lo orientò all’azione apostolica: “La prima cosa che gli venne consigliata per farsi santo fu di adoperarsi per guadagnar anime a Dio” (Vite, 63).

Come altri santi dell’Ottocento, convinti che l’azione della grazia spinge verso un vissuto fecondo di virtù morali, di operosità santa e di opere di carità, don Bosco, preferiva l’impegno volitivo nel bene, l’operosità virtuosa e allegra, la relazione amichevole e servizievole e, soprattutto, la carità apostolica: “la sollecitudine per il bene delle anime” e lo zelo per “istruire i fanciulli nelle verità della fede”, per “guadagnare a Dio” tutta l’umanità.

Tuttavia, questa tendenza ascetico-operativa, questa predilezione per il fervore pastorale e missionario in don Bosco non si opponevano affatto all’interiore comunione con Dio; egli non trascurava l’orazione d’unione, anzi si protendeva docile alle attrattive dello Spirito Santo e in questo clima orante formava i suoi discepoli.

4. Vivere alla presenza di Dio

Qui si inserisce il tema della preghiera, intesa da don Bosco come relazione amorosa, comunione di pensieri, affetti e sentimenti con Dio. Affermava: “Pregare vuol dire innalzare il proprio cuore a Dio e intrattenersi con lui per mezzo di santi pensieri e divoti sentimenti” (Il cattolico, 87). Dunque, la preghiera che egli promuoveva aveva come primo obiettivo l’elevazione dello spirito e l’invocazione della grazia per resistere alle tentazioni, distaccare il cuore dal peccato, crescere nella virtù. Su questa traccia sviluppò un metodo di preghiera che valorizzava le comuni pratiche di pietà come via efficace per giungere allo “spirito di preghiera” (così egli lo chiamava). Le orazioni del mattino e della sera, le frequenti invocazioni o giaculatorie lungo la giornata, le letture spirituali, le quotidiane “visite” in cappella, i tridui e le novene, i ritiri mensili e gli esercizi spirituali: erano tutti esercizi finalizzati a instaurare e incrementare una costante conversazione interiore e un legame affettuoso, ad alimentare un senso adorante della presenza di Dio per entrare in uno “stato” di permanente comunione.

Anche qui il nostro Fondatore insiste sulla facilità e sulla semplicità, invitando a costellare la giornata di brevi momenti di orazione, dalla sveglia mattutina fino alla conclusione della giornata, per fare in modo che ogni azione, “diligentemente” compiuta, fosse “indirizzata” e offerta al Signore (GP 68-70, 82). Scorrendo le pagine del Giovane provveduto, le Vite dei suoi giovani, ma anche i regolamenti dei Salesiani, delle figlie di Maria Ausiliatrice e dei Cooperatori, non troviamo nulla di complicato e di pesante, solo pratiche di pieta sobrie e piacevoli, ma connotare dal fervore, dall’affidamento, dall’offerta amorosa di sé: “Cose facili, che non spaventino e neppure stanchino il fedele cristiano, massime poi la gioventù. […] Teniamoci alle cose facili, ma si facciano con perseveranza” (Vite, 136).

Egli teneva conto della sensibilità giovanile e popolare, dunque faceva leva sull’affettività, sull’amicizia di Cristo, sulla tenerezza materna di Maria. Era convinto che fosse compito dell’educatore cristiano adoperarsi per “far prendere gusto alla preghiera ai giovanetti” (Vite, 204). Per questo li esercitava al pensiero della “presenza di Dio”, Padre amorosissimo, li invitava ad elevare di tratto in tratto il cuore e la mente al Creatore, li invogliava “a conversare familiarmente” con Lui, in qualsiasi luogo, sull’esempio di Domenico Savio, il quale, “anche in mezzo ai più clamorosi trambusti, raccoglieva i suoi pensieri e con pii affetti sollevava il cuore a Dio” (Vite, 69). Educava anche gli atteggiamenti esterni (il segno della croce, la genuflessione, la compostezza del corpo durante l’orazione), voleva una pronuncia chiara e calma delle parole, dava grande importanza alla musica e al canto sacro, curava la bellezza degli ambienti dedicati alla preghiera e l’armonia e la solennità delle liturgie

Attraverso questi semplici mezzi don Bosco mirava, per sé stesso e per gli altri, al raggiungimento di uno stato interiore di amore permanente, tale da impregnare i pensieri, unificare gli affetti, orientare le azioni. Lo “stato di preghiera”, nel suo modo di vedere, non è soltanto un “grado” di orazione, perché è sempre accompagnato da una tensione al perfezionamento morale: distacco, sforzo di superamento e controllo di sé, pazienza, vigilanza, fedeltà e costanza nel bene, benevolenza. È uno stato d’animo raccolto, in uno stile di vita modesto, concentrato sull’essenziale, laborioso e caritatevole, aperto all’azione interiore della grazia che preserva dalla dispersione dei pensieri e dalla banalità delle mode, senza nulla sottrarre alla vivacità gaudiosa dell’esistenza. Si crea così una dimensione interiore elevata, l’unica veramente capace di trasformare il cortile, la scuola, il laboratorio o l’ufficio in luoghi salesiani privilegiati dell’incontro col Signore.

In tal modo il santo educatore risignificò radicalmente l’antico precetto della fuga mundi in un contesto di modernità. Grazie allo spirito di preghiera, l’allontanamento dal mondo e l’immersione nel mondo si compongono e si armonizzano nell’offerta di sé, in un’assunzione responsabile del vissuto in stile cristiano. Orazione, fervore apostolico e mortificazione sono facce di un unico atteggiamento di consacrazione del cuore. Proposta alta, fatta da don Bosco ai discepoli e alle discepole nella vita consacrata, ai Cooperatori adulti, ma anche ai ragazzi più semplici, che esortava: “Coraggio adunque cominciamo per tempo a lavorar per il Signore, ci tocca patire qualche cosa in questo mondo, ma sarà poi eterno il premio che avremo nell’altro” (GP 73).

La sua direzione spirituale, inoltre, dava massima importanza alla pratica sacramentale: “Ritenete, o giovani miei, che i due sostegni più forti a reggervi e camminare per la strada del cielo sono i sacramenti della confessione e comunione” (Regolamento, 36). Don Bosco valorizzò i sacramenti in prospettiva pedagogica e spirituale. L’insistenza sulla frequenza sacramentale era motivata dalla coscienza della fragilità umana e del bisogno di sostenere la volontà per stabilizzarla nel bene e nella virtù; ma anche dalla convinzione della potente azione trasformatrice dello Spirito Santo che, agendo nel sacramento, opera la purificazione radicale e crea le condizioni favorevoli perché il Signore possa “prendere possesso del cuore” e plasmarlo nella carità. Qui si coglie il motivo della sua insistenza sulla scelta di un confessore stabile, di un amico dell’anima, al quale affidarsi per essere guidati sulle vie dello Spirito. Nel rapporto confidenziale, infatti, il confessore personalizza il programma spirituale: insegna l’arte dell’esame di coscienza, forma alla contrizione perfetta, stimola il proposito efficace, guida sui sentieri delle purificazioni e degli esercizi virtuosi, introduce al gusto della meditazione e alla pratica della presenza di Dio, insegna i modi di una feconda comunione col Cristo eucaristico. Confessione e comunione frequente sono intimamente legate nella pedagogia spirituale di don Bosco. Con la confessione assidua e regolare si promuove la vita “in grazia di Dio” e si alimenta la tensione virtuosa che permette un accostamento sempre più “degno” alla comunione; nello stesso tempo, attraverso la comunione eucaristica, la persona si polarizza su Cristo affinché la grazia trovi spazio per operare in profondità, trasformare e santificare.

Questa preoccupazione spiega il clima affettivo nel quale don Bosco prospettava la devozione eucaristica. Durante l’offertorio della messa, ad esempio, egli invitava i giovani a contraccambiare l’amore oblativo del Cristo crocifisso col dono di sé: “Vi offro il mio cuore, la lingua mia, affinché per l’avvenire altro non desideri né d’altra cosa parli, se non di quello che riguarda al vostro santo servizio” (GP 88). Così anche nel ringraziamento alla comunione:

Ah potessi aver il cuore dei serafini del cielo, affinché l’anima mia ardesse mai sempre di amore per il mio Dio! […] Protesto che per l’avvenire voi sarete sempre la mia speranza, il mio conforto, voi solo la mia ricchezza. […] Vi offro tutto me stesso; vi offro questa volontà, affinché non voglia altre cose se non quelle che a voi piacciono; vi offro le mie mani, i miei piedi, gli occhi miei, la lingua, la bocca, la mente, il cuore, tutto offro a voi, custodite voi tutti questi sentimenti miei, acciocché ogni pensiero, ogni azione non abbia altro di mira se non quelle cose che sono di vostra maggior gloria e di vantaggio spirituale dell’anima mia (GP 101-102).

Sono testi ispirati alla letteratura devota del tempo, ma se colleghiamo con gli sforzi formativi messi in atto da don Bosco, in particolare con lo specifico modello di santità da lui promosso, acquistano un valore unico, perché ci svelano i meccanismi interiori innescati dal santo educatore per il coinvolgimento interiore dei suoi giovani in ordine alla relazione con Dio e alla perfezione cristiana.

Anche la pietà mariana in lui acquista una chiara funzione pedagogica, pur mantenendo le caratteristiche tipiche della devozione ottocentesca. Lo possiamo constatare nel profilo biografico di Michele Magone, dove la devozione a Maria santissima culmina — come dice don Caviglia — in una “pedagogia dell’adolescenza, che è dunque e soprattutto pedagogia della castità” (Caviglia, 162).

Ma non è solo questo. Infatti don Bosco racconta che Michele, nel meditare un versetto biblico stampato su un’immagine di Maria – Venite, filii, audite me, timorem Domini docebo vos – si sentì spinto a scrivere una lettera al direttore “in cui diceva come la beata Vergine gli aveva fatta udire la sua voce, lo chiamava a farsi buono e che ella stessa voleva insegnargli il modo di temere Iddio, di amarlo e servirlo” (Vite, 133). Ecco: una corretta pedagogia mariana è in grado di far percepire l’appello interiore dello Spirito anche a un ragazzo distratto e dissipato, per indurlo a un’attività spirituale più intensa e accendere in lui un desiderio di alta perfezione. Nella vita di Domenico Savio, la tensione spirituale raggiunge il vertice con l’atto formale e solenne dell’8 dicembre 1854, quando il ragazzo rinnova le promesse della prima comunione e ripete: “Maria, vi dono il mio cuore; fate che sia sempre vostro! Gesù e Maria, siate voi sempre gli amici miei! Ma per pieta, fatemi morire, piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato!”. “Presa cosi Maria per sostegno della sua divozione – commenta don Bosco – la morale di lui condotta apparve così edificante e congiunta a tali atti di virtù, che ho cominciato fin d’allora a notarli per non dimenticarmene” (Vite, 57). Sono espressioni che ci rivelano la portata dinamica della devozione mariana insegnata da don Bosco: una devozione non staccata dal quotidiano, ma compenetrata con esso, capace di somministrare energie morali e spirituali per la pratica del bene, in una prospettiva di pienezza umana e spirituale – di santità, appunto – che impregna la vita interiore e quella operativa.

Conclusione

Mi sono soffermato sui nodi dinamici della proposta di vita e santità cristiana presentata da don Bosco ai giovani. È però importante notare che gli stessi dinamismi caratterizzano gli insegnamenti spirituali del nostro Fondatore quando si rivolge ai consacrati, alle consacrate e ai laici Cooperatori, rimarcando sempre la radicalità cristiana e la tensione apostolica.

Ad esempio, il formulario della professione religiosa, inserito nell’edizione italiana delle prime costituzioni salesiane (1875), è introdotto da una dichiarazione che illustra in modo evidente la totalità battesimale della consacrazione salesiana come la intendeva don Bosco:

Professando le costituzioni salesiane io intendo di promettere a Dio di aspirare alla santificazione dell’anima col rinunciare ai piaceri ed alle vanità del mondo, colla fuga di qualunque peccato avvertito e di vivere in perfetta castità, in umile ubbidienza, in povertà di spirito. Conosco pure che professando queste costituzioni debbo rinunziare a tutte le comodità e a tutte le agiatezze della vita, e ciò unicamente per amore a Nostro Signore Gesù Cristo, cui intendo consacrare ogni mia parola, ogni mia opera, ogni mio pensiero per tutta la vita (Regole, 44-45).

Scrive don Bosco nella prima lettera circolare ai salesiani (9 giugno 1867):

“Ognuno deve entrare in Società guidato dal solo desiderio di servire a Dio con maggior perfezione e di fare del bene a sé stesso, si intende fare a sé stesso il vero bene, bene spirituale ed eterno.  […] Noi mettiamo per base le parole del Salvatore che dice: Chi vuole essere mio discepolo vada a vendere quanto possiede nel mondo, lo dia ai poveri e mi segua. Ma dove andare, dove seguirlo, se non aveva un palmo di terra ove riporre lo stanco suo capo? Chi vuole farsi mio discepolo, dice il Salvatore, mi segua colla preghiera, colla penitenza e specialmente rinneghi sé stesso, tolga la croce delle quotidiane tribolazioni e mi segua […]. Ma fino a quando seguirlo? Fino alla morte e se fosse mestieri, anche ad una morte di croce. Ciò è quanto nella nostra Società fa colui che logora le sue forze nel sacro ministero, nell’insegnamento od altro esercizio sacerdotale, fino ad una morte eziandio violenta di carcere, di esilio, di ferro, di acqua, di fuoco; fino a tanto che dopo aver patito od essere morto con Gesù Cristo sopra la terra possa andare a godere con lui in cielo” (Fonti salesiane 1, 822).

Anche quando si rivolge ai laici, don Bosco presenta la perfezione cristiana come una radicale conformazione a Cristo. Nessuno infatti, scrive nel 1856, “può vantarsi di appartenere a Gesù Cristo se non si adopera per imitarlo”. Perciò nella sua vita e nelle sue azioni deve rispecchiare “la vita e le azioni di Gesù Cristo medesimo”: “deve pregare, siccome pregò Gesù”; come Lui deve essere “accessibile […] ai poveri, agli ignoranti, ai fanciulli”, facendosi tutto a tutti. “Deve trattare col suo prossimo, siccome trattava Gesù Cristo”; “deve essere umile” come Lui e considerarsi “come il minore degli altri e come servo di tutti”. “Il cristiano deve ubbidire come ubbidì Gesù Cristo, il quale fu sottomesso a Maria e a san Giuseppe, ed ubbidì al suo celeste Padre fino alla morte e alla morte di croce”. “Il vero cristiano nel mangiare e nel bere deve essere come era Gesù Cristo alle nozze di Cana di Galilea e di Betania, cioè sobrio, temperante, attento ai bisogni altrui”.

“Il buon cristiano deve essere coi suoi amici siccome era Gesù Cristo con san Giovanni e san Lazzaro. Egli li deve amare nel Signore e per amor di Dio; loro confidare cordialmente i segreti del suo cuore; e se essi cadono nel male, egli mette in opera ogni sollecitudine per farli ritornare nello stato di grazia.

Il vero cristiano deve soffrire con rassegnazione le privazioni e la povertà, come le soffrì Gesù Cristo, il quale non aveva nemmeno un luogo ove appoggiare il suo capo. Egli sa tollerare le contraddizioni e le calunnie, come Gesù tollerò quelle degli scribi e dei farisei, lasciando a Dio la cura di giustificarlo. Egli sa tollerare gli affronti e gli oltraggi, siccome fece Gesù Cristo allorché gli diedero uno schiaffo, gli sputarono in faccia e lo insultarono in mille guise nel pretorio.

Il vero cristiano deve essere pronto a tollerare le pene di spirito, siccome Gesù Cristo quando fu tradito da uno dei suoi discepoli, rinnegato da un altro ed abbandonato da tutti.

Il buon cristiano deve essere disposto ad accogliere con pazienza ogni persecuzione, ogni malattia ed anche la morte, siccome fece Gesù Cristo, il quale colla testa coronata di pungenti spine, col corpo lacero per le battiture, coi piedi e colle mani trafitte da chiodi, rimise in pace l’anima sua nelle mani del suo Padre.

Di maniera che il vero cristiano deve dire coll’apostolo san Paolo: Non sono io che vivo, ma è Gesù Cristo che vive in me (Chiave del paradiso, 20-23).

Santità facile, dunque, santità vissuta nella quotidianità, con amore e col sorriso sulle labbra. Ma certamente una santità esigente e feconda di frutti.

Bibliografia

Il cattolico =  Giovanni Bosco, Il cattolico provveduto per le pratiche di pietà con analoghe istruzioni secondo il bisogno dei tempi, Torino, Tip. dell’Oratorio di S. Franc. di Sales, 1868.

Caviglia = Alberto Caviglia, Il «Magone Michele»: una classica esperienza educativa, in Opere e scritti editi e inediti di Don Bosco nuovamente pubblicati e riveduti secondo le edizioni originali e manoscritti superstiti, a cura della Pia Società Salesiana, vol. 5, Torino, Società Editrice Internazionale, 1965, 129-247.

Chiave del paradiso = Giovanni Bosco, La chiave del paradiso in mano al cattolico che pratica i doveri di buon cristiano, Torino, Tip. Paravia e Comp., 1856.

Filotea = Francesco di Sales, Filotea. Introduzione alla vita devota. Introduzione di Valentín Viguera; traduzione e note di Ruggero Balboni, Roma, Città Nuova, 2009.

Fonti salesiane 1 =  Istituto Storico Salesiano, Fonti salesiane 1. Don Bosco e la sua opera, Roma, LAS, 2014.

GP =  Giovanni Bosco, Il giovane provveduto per la pratica de’ suoi doveri…, Torino, Tipografia Paravia e Comp., 1847.

MO = Giovanni Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Saggio introduttivo e note storiche a cura di Aldo Giraudo, Roma, LAS, 2011.

Regolamento = Giovanni Bosco, Regolamento dell’Oratorio di S. Francesco di Sales per gli esterni. Torino, Tipografia dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, 1877.

Regole = Giovanni Bosco, Regole o costituzioni della Società di S. Francesco di Sales secondo il Decreto di approvazione del 3 aprile 1874, Torino, Tipografia Salesiana, 1875.

Santa Zita = Vita di santa Zita serva e di sant’Isidoro contadino, Torino, Tipografia P. De-Agostini, 1853.

Vite =  Giovanni Bosco, Vite di giovani. Le biografie di Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco. Saggio introduttivo e note storiche a cura di Aldo Giraudo, Roma, LAS, 2012.

 

2. Uscire verso le pereferie per donare ciò che sei. la santità come missione - dr. Francesco Torralba

Uscire verso le pereferie per donare ciò che sei. La santità come missione

Dr. Francesco Torralba

Università Ramon Llull (Barcelona)

  1. A mo’ di prologo

Prima di tutto, desidero ringraziare il Rettor Maggiore per l’invito a prender parte attivamente in questo evento salesiano. Per ragioni familiari, nutro una grande stima per l’opera di Don Bosco. I miei cinque figli si sono formati in un centro educativo salesiano nella città di Barcellona e uno di loro, un figlio adottato, Valentín, con esigenze educative particolari, è stato seguito con molta cura dai suoi educatori sociali che hanno contribuito enormemente alla sua crescita integrale.

Gratitudine, dunque, è la prima parola che esce dalle mie labbra.

Ringrazio inoltre per la possibilità di visitare, nuovamente, la città di Torino, che ha un gran valore simbolico per tutta la comunità salesiana, giacché qui è il luogo in cui Don Bosco ha iniziato la sua attività educativa ed apostolica con i giovani delle periferie. Ho visitato in due occasioni la città di Torino partecipando al Congresso Torino Spiritualità; per finire questa città attira la mia attenzione, in modo particolare, per le sue librerie.

Il tema che mi invitano ad esporre è molto bello. Desidero presentarlo alla luce del Magistero di Papa Francesco. Ho l’onore di essere un consultore del Pontificio Consiglio della Cultura e seguo con attenzione lo sviluppo del suo magistero nel mondo.

Il pensiero di Papa Francesco sulla santità è un pensiero vivo e dinamico, per il quale qualsiasi descrizione dello stesso deve essere interpretata in chiave temporale. Nonostante ciò, esistono alcune linee forza che configurano la sua forma mentis e che nutrono il suo pensiero presente e, molto probabilmente, futuro. Nessuno può anticipare il pensiero di un essere umano, tantomeno pretendo di farlo io in quest’opera, però è mia intenzione identificare alcuni elementi costanti, i pilastri che sostengono la sua intelligente intuizione e le sue espressioni sociali ed ecclesiali.

Papa Francesco formula i suoi messaggi con un linguaggio chiaro e diretto, è capace di farsi comprendere da persone di condizioni molto diverse. È ascoltato e stimato da un gran numero di fedeli e, col suo discorso, risveglia anche l’interesse tra i ‘non credenti’, proprio per questa abilità di comunicarsi in modo chiaro e diretto.

La sua volontà di arrivare ai ‘non iniziati’, di uscire dalla propria comunità per avvicinarsi a quelli che si trovano oltre della stessa, si manifesta con chiarezza nei suoi discorsi. La sua pretesa è aggiungere ed integrare e, nel migliore dei casi, creare ponti di dialogo con quanti non partecipano alla stessa cosmovisione né scelta di vita. Questo è quanto ci si aspetta da un Pontefice, che tenda ponti e riunisca ed accolga diverse sensibilità.

Centrerò la mia esposizione in tre idee chiavi a riguardo della chiamata alla santità: il valore del dono di sé, il bisogno di uscire da se stessi e l’imperativo di arrivare alle periferie del mondo. Gran parte di queste idee hanno come spunto principale di ispirazione l’Esortazione apostolica Gaudete et Exsultate. Sulla chiamata alla santità nel mondo attuale di Papa Francesco.

  1. Il dono di sé: cammino di santità

Il dono di sé è la vera strada della santità. Il processo del dono di sé esige il superamento di una catena di barriere invisibili. Non si presenta come un itinerario facile, al contrario, come una salita. Nonostante che la teleologia del dono è iscritta in ogni ente, dal più infimo al più complesso della scala degli esseri, l’essere umano si confronta con una serie di difficoltà per liberare il dono.

La via del dono di sé che qui proponiamo si scontra, frontalmente, con le proposte che si impongono nell’immaginario collettivo, nel quale la felicità si concepisce come il conseguimento del piacere, il culmine di un desiderio, oppure come il comfort o il benessere materiale, ma difficilmente si relaziona con la pratica del dono di sé.

È necessario constatare che questi modi di concepire la felicità umana provocano un vero malessere dello spirito, perché quando uno ottiene un piacere che in teoria gli dia la felicità o il comfort che doveva garantirgli tale felicità, sperimenta un profondo vuoto e si rende conto che la felicità si trova in un altro luogo.

Siamo dono e siamo fatti per il dono. Ci è stata data una natura e sentiamo, dalla vocazione originaria, la chiamata a dare ciò che siamo, ma questa chiamata si scontra con un ostacolo fondamentale: l’ego. L’ego non è un dono, né una realtà tangibile, nemmeno è qualcosa che abbia un’entità in se stessa. È una tendenza, un vettore, una forza che si oppone al movimento del dono di sé, come una specie di resistenza fondamentale, atavica, che impedisce il processo del dono gratuito.

Per approfondire questa nozione del dono di sé è fondamentale sottolineare la prospettiva di Don Bosco. San Giovanni Bosco utilizza il binomio lavoro e temperanza per illuminare la questione. Con la parola lavoro si riferisce al dono, all’esercizio del darsi, attraverso l’azione. Con la parola temperanza si circoscrive l’ascesi interiore, l’esercizio di trascendenza dell’ego che esige, per forza, l’atto di donarsi. Entrambi elementi ci configurano a Cristo (Art. 34 della Carta dell’Identità Carismatica).

Secondo Albert Einstein, l’esigenza di liberarsi dall’ego è un messaggio comune ed universale in tutte le religioni e non esclusivo del cristianesimo. Il proposito di tutte loro è liberarsi dall’ego, visto che solo così è possibile superare la visione frammentata e dualista della realtà; solo così è possibile praticare la benevolenza universale e la gratuità, sentire veramente compassione per l’altro, allargare i limiti del proprio io per collegarsi con l’esperienza fondamentale dell’altro. La compassione esige, come condizione possibile, l’esercizio della liberazione dell’ego, perché è impossibile condividere il cum della compassione, se l’ego non trascende il suo mondo ed empatizza con il destino dell’altro.

Di fronte alla dinamica egocentrica che rinchiude l’essere umano nel suo piccolo e angusto mondo, c’è la dinamica dell’amore, che lo entusiasma, lo apre agli altri, a dare il meglio di se stesso. Scrive Søren Kierkegaard: “L’amore non cerca il ‘suo’: perché nell’amore non c’è né il mio né il tuo. Ebbene, mio e tuo non sono che una determinazione relativa al ‘proprio’; per cui, se non c’è né mio né tuo, nemmeno c’è qualcosa di proprio; e non essendoci nulla di proprio è, senza dubbio, impossibile cercare il ‘suo’”[1].

La via della felicità e dell’armonia sociale transita, necessariamente, per la liberazione dell’ego. Questa esigenza trascende gli universi religiosi ed unisce, profondamente, tutti gli esseri. Per questo, scrive il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar: “Qualsiasi persona che, anche fuori dal cristianesimo, voglia rompere la sua strettezza egoista e fare il bene per il bene, riceve una luce che gli indica una via che può e deve seguire, luce che allo stesso tempo gli rivela la verità e una vita più dinamica[2].

La vera spiritualità è dono di sé, è apertura che trascende la tendenza egocentrica. Ciò ci richiede di discernere in ogni momento quello che dobbiamo fare. Scrive Papa Francesco: “Il discernimento non è un’autoanalisi presuntuosa, un’introspezione egoista, ma una vera uscita da noi stessi verso il mistero di Dio, che ci aiuta a vivere la missione alla quale ci ha chiamato per il bene dei fratelli” (GE 175).

  1. Uscire da se stessi: cammino di santità

Uscita da se stessi è una delle espressioni più utilizzate da Giorgio Mario Bergoglio durante il suo magistero pontificio e che egli applica a diversi ambiti e realtà.

Esprime un movimento, o meglio ancora, un atteggiamento di fronte alla vita, un modo di essere e di stare nel mondo. Consiste nel decentrarsi, nel dimenticarsi di se stessi, del proprio mondo personale per aprirsi al mondo dell’altro. Non significa, in nessun caso, la negazione della propria identità, ma il superamento dell’autoreferenzialità e del narcisismo.

Uscire da sé costituisce un doppio movimento, sia dal punto di vista fisico che nel senso spirituale del termine. Non solo significa spostarsi ad un altro luogo, conoscere un’altra terra, dare ascolto ad una nuova geografia, ad un nuovo linguaggio, ma anche essere capaci di sommergerci in altre categorie intellettuali, in un altro universo linguistico e spirituale, in definitiva, penetrare un altro quadro di riferimento. Questo movimento è intrinseco allo spirito della missione.

Uscire da se stessi è, nel senso stretto della parola, un’operazione estatica. Estasi, nel senso più genuino del termine greco, evoca questo movimento di uscita verso l’esterno di uno stesso, verso l’alterità. In chiave spirituale, denota l’incontro con la Realtà assoluta, con l’Alterità indissolubile che l’essere umano incontra nel più profondo della sua interiorità e che, in nessun caso, si identifica con il suo io.

In riferimento a questo punto, risulta pertinente in questo contesto richiamare alla mente la figura di San Francesco di Sales e ricordare gli articoli 27 e 28 della Carta di Identità Carismatica della Famiglia Salesiana in cui si esplicita il triplice senso che lui attribuisce a questa espressione e che la spiritualità salesiana traduce come una spiritualità del quotidiano.

Nella filosofia di Sant’Agostino, si evidenzia come nella parte più intima dell’essere umano abiti il Cristo interiore, però solo chi esce dal suo mondo proprio e rompe il suo guscio di idee e di referenze, è capace di sperimentare tale incontro.

Una persona esce da se stessa quando è in grado di adottare la ‘forma di recipiente’, con un atteggiamento accogliente, e si lascia interrogare, interpellare e istruire dalla realtà che lo circonda. Il cristiano è chiamato ad uscire da se stesso, a negare il suo ego, così come viene espresso nel Vangelo e a donarsi al prossimo; anche la Chiesa è chiamata a realizzare questo movimento, ad uscire fuori da se stessa per irradiare Cristo nel mondo con una volontà missionaria. La chiusura individuale ha come conseguenza la povertà spirituale e la claustrofobia esistenziale.

In questo modo, l’uscita da sé, ricorda un doppio atteggiamento. Da un lato, denota la volontà di conoscere l’alterità, quello che si trova oltre l’io e il suo mondo (sentimenti, pensieri, ricordi, desideri profondi, problemi, illusioni), però, dall’altro, richiama la volontà di comunicare ciò che uno crede a proposito di questa nuova realtà. L’uscita da sé non è una funzione turistica, non risponde alla mera curiosità intellettuale. Non si tratta di uscire da se stessi perché si è stufi di ciò che si è, stanchi del proprio pantano e si sente il bisogno di vivere novità che riempiano di senso la propria esistenza.

L’uscita di sé, ha un altro scopo: rivelare quello in cui uno crede, irradiare Cristo nel mondo, essere strumento di pacificazione, ma questo è possibile solo se uno ha l’audacia di uscire dal recinto che conosce, dal territorio che domina e che controlla ed assume il rischio di fallire, di lasciarsi ferire o burlare.

In effetti, l’audacia è la virtù indispensabile per realizzare questo movimento e si oppone radicalmente all’essere privi di volontà o forza d’animo. Il pusillanime teme sia di fallire, che di spezzarsi o di essere ferito e preferisce non uscire dal proprio mondo, dai propri schemi mentali. Vive in una piccola bolla intellettuale, protetto, al riparo, però non conosce la novità radicale di Dio, perché preferisce mantenersi nell’immagine comoda di Dio che lui stesso si è plasmato.

Scrive Papa Francesco: “Dio ci supera infinitamente, è sempre una sorpresa e non siamo noi a determinare in quale circostanza storica trovarlo, dal momento che non dipendono da noi il tempo e il luogo e la modalità dell’incontro. Chi vuole tutto chiaro e sicuro pretende di dominare la trascendenza di Dio” (GE, 41).

L’audacia è la virtù che ci predispone ad assumere rischi, ad affrontare l’incognito, a scrutare nei limiti, a varcare le frontiere. Questa è la virtù che riconosciamo nei grandi spiriti missionari che, durante la storia della Chiesa, sono arrivati ai confini della terra, per comunicare il messaggio di liberazione di Cristo a tutti gli essere umani. Per uscire da sé, sia a livello individuale come ecclesiale, è indispensabile assumere rischi, ad essere disposti a sbagliarsi e ad apprendere dagli errori commessi.

Sembra opportuno, in questo momento far riferimento alla stessa storia di Don Bosco e il suo legame con la città di Torino. Precisamente questo luogo dove ci troviamo, in pieno secolo XIX, era allora una periferia della città di Torino. Don Bosco si è sentito chiamato a vivere tra i giovani più poveri ed abbandonati, assumendo tutti i rischi che questo supponeva. Con questo passo audace ha dato origine ad un nuovo stile di presenza, di relazione, di proposta educativa ed evangelizzatrice nel mondo giovanile. Un carisma, questo, presente oggi in tanti luoghi del mondo.

Per uscire da sé risulta indispensabile utilizzare il linguaggio adeguato. Solo se uno è recettivo al linguaggio che si impiega nelle periferie, sarà in grado di comunicare convenientemente con gli esseri umani che abitano in quelle ‘frontiere’. Per questo motivo è essenziale essere attenti, essere recettivi, capire le categorie intellettuali che lì si utilizzano per tradurre, in un secondo momento, il proprio messaggio in un linguaggio che risulti significativo. Questo compito è fondamentale ed è stato una costante nella storia delle missioni. Difatti, molti missionari sono stati pionieri nel momento dello studio delle lingue e della grammatica dei popoli la cui cultura si trasmetteva e, in molti casi si continua a trasmettere, in modo orale.

L’uscita da sé, dunque, oltre all’audacia esige l’adeguamento. Adattarsi al destinatario è indispensabile per arrivare a lui e comunicargli qualcosa che sia significativo per lui, che susciti qualche risonanza nel suo interiore. All’uscire da se stessi, dal proprio linguaggio e dalle proprie categorie, sente vertigine, diventa fragile perché dubita della sua traduzione, si chiede se il suo modo di comunicare il messaggio esprime fedelmente quanto crede o se viene alterato significativamente mediante l’esercizio della traduzione.

L’ostacolo principale per l’uscita di sé, oltre alla pusillanimità, è il puritanesimo, il timore a contaminarsi quando uno abbandona le proprie categorie intellettuali per arrivare all’altro e comunicare un messaggio che sia significativo. La rigidità intellettuale, l’inflessibilità e il timore di perdersi nell’ambiguità, ha come conseguenza finale la ripetizione delle stesse cose, con le stesse categorie che possono essere utili nel proprio ambito sociale e culturale, però, in cambio, completamente irrilevanti ed incomprensibili nelle periferie.

L’idea di uscire da sé si relaziona strettamente con la cultura dell’incontro e con la nozione del dialogo. In effetti, l’incontro interpersonale richiede l’uscita da sé da parte di entrambi gli interlocutori. Solo se ambedue escono dal proprio mondo e si dispongono a rivelare quello che realmente sentono e pensano si ottiene l’incontro.

Il dialogo richiede un’alternanza tra l’uscita da sé e la recettività. Solo se uno accoglie la parola dell’altro nella propria interiorità può rispondere alle sue inquietudini e instaurare una vera comunicazione dialogica. L’emissore esce da se stesso e comunica il messaggio, però questo può essere accolto solo se il recettore si svuota da se stesso e si dispone ad accoglierlo nella sua interiorità. Questo processo di alternanza è intrinseco all’esercizio del dialogo.

Uscire da sé, però, perché? Uscire per annunciare, per sanare, per consolare, per insegnare. Questo significa uscire, pensando anche alla possibilità di non essere sempre ricevuto bene. Questo movimento è costantemente riferito alla storia della Salvezza.

I personaggi biblici escono dal proprio contesto, della propria situazione, obbediscono alla chiamata di Dio che li interpella al movimento dell’uscita. È il caso paradossale di Mosè. Il Patriarca ascolta una voce che lo invita ad uscire, con il suo popolo, dalla terra d’Egitto.

L’esodo del Popolo di Israele è la prima espressione di questa uscita cercando la liberazione da qualsiasi forma di oppressione. L’uscita da sé ha una causa efficiente: la chiamata di Dio. È Dio che chiama ad uscire verso le periferie, a decentralizzarsi, a dedicarsi agli altri, ad abbandonare le sicurezze del proprio mondo per donarsi al prossimo.

In un piano strettamente teologico, l’uscita da sé è un’operazione che ha luogo nella dimensione della stessa divinità. Dio, al creare il mondo, esce da sé, fa emergere una realtà dal nulla (ex nihilo) e, attraverso la stessa, manifesta il suo essere, però Dio non solo crea, ma si rivela nella storia.

La rivelazione si può interpretare anche in questa chiave: Dio comunica la sua Parola al mondo, fa conoscere i suoi disegni divini all’umanità, la rende partecipe della sua verità. Esce da sé per elevare l’uomo al piano divino, gli comunica il cammino della salvezza.

Questo uscire da sé o movimento estatico di Dio non obbedisce a nessun bisogno o carenza da parte di Dio stesso, perché contraddirebbe la sua natura. È un’espressione del suo amore, un frutto del suo amore, perché l’amore è diffusivo e comunicativo per se stesso. Chi ama, dona se stesso, esce dal proprio guscio per liberare l’altro, per sanare le sue ferite.

Il culmine del movimento estatico di Dio è l’incarnazione del Figlio. Dio Padre invia il Figlio al mondo per donarsi pienamente all’umanità e salvarla. Questa uscita di sé finisce con la passione e con la morte in croce del Figlio di Dio. Dio, all’uscire da se stesso, all’incarnarsi, assume la condizione umana e tutto ciò che comporta, la finitudine, la limitatezza, l’indigenza e tutte le proprie manifestazioni come il dolore, la fatica, la disperazione e la solitudine; si fa uno di noi senza abbandonare la sua natura divina.

  1. Le periferie dell’esistenza e del mondo

Una categoria strettamente relazionata con l’uscita da sé è la nozione di periferia. Il cristiano è chiamato ad uscire da se stesso per andare verso le periferie. La periferia è quel territorio che si trova oltre al limite di ciò che è conosciuto, situato alle frontiere della cartina geografica, lontano dal centro di gravità. Uscire da sé per andare alle periferie richiede l’audacia di addentrarsi in territori pericolosi nei quali non si conosce esattamente ciò che si potrà incontrare.

Periferie del mondo è un’espressione che ha un senso strettamente fisico, geografico. Papa Francesco si riferisce con essa a quegli spazi e territori del mondo in cui si soffre, dove il dolore e l’indignazione si manifestano con grande intensità. Ci riferiamo a queste zone del pianeta castigate dalle guerre, dai genocidi, dove si soffre la fame, la siccità, le dittature, i disastri ecologici, la violenza o la droga con le sue conseguenze drammatiche che colpiscono soprattutto i gruppi più vulnerabili della società, tra i quali i bambini ed i giovani.

Anche periferie dell’esistenza è una delle espressioni che ha avuto più risonanza nel magistero di Papa Francesco. Non sono luoghi; nemmeno sono territori fisici. Sono tappe dell’esistenza, episodi di sofferenza, di solitudine e di disperazione che ogni essere umano può vivere durante il corso della sua vita. Nessuno è esente, perché la fragilità è intrinseca alla persona umana.

La vita umana, tale come la descrive il sommo pontefice, non è un continuum, nemmeno è qualcosa che si possa prevedere completamente. Esattamente il contrario. La novità sempre è in agguato. Accadono situazioni ed episodi che uno non si sarebbe immaginato, si vivono circostanze limiti che mettono in crisi ogni certezza e ogni speranza. Sopravviene la malattia, la crisi di fede, la frustrazione sul lavoro, l’ingratitudine, il dolore, il tradimento e l’infedeltà.

Il cristiano – e anche voi, membri della Famiglia Salesiana, per questa vostra vocazione specifica – è chiamato ad uscire da sé stesso, a transitare per le periferie dell’esistenza, per esser presente in quelle circostanze nelle quali il mondo sembra crollare addosso alle persone, dove la vita vacilla e uno si abbandona alla disperazione. In dette periferie dell’esistenza, è chiamato ad essere luce e fonte di speranza.

Nessuno desidera trovarsi nelle periferie dell’esistenza. Tutti preferiscono rimanere nel centro, dove ogni cosa è sotto controllo, dove tutto trascorre in modo ripetitivo. Proprio la Chiesa si sente chiamata a farsi presente non solo in modo superficiale, ma con la volontà di radicarsi, di rimanere, di trasformare questa realtà. Per questo è fondamentale la dinamica dell’incarnazione, con tutti i rischi che questo comporta.

Tuttavia, la funzione della Chiesa è quella di essere madre e maestra (mater y magistra), come indicò Papa San Giovanni XXIII, essere fonte di consolazione e di guarigione in queste situazioni periferiche. Esattamente nelle periferie dell’esistenza si rende più necessario che mai il linguaggio della speranza, ma è anche dove risulta più difficile pronunciarlo vista la situazione di vulnerabilità nella quale si vive.

Le periferie dell’esistenza sono, anche quelle che il filosofo e medico Karl Jaspers (1883-1969) definì situazioni limite (die Grenzsituationen): il dolore, la malattia, l’insuccesso, il disinnamoramento, la colpa, la disillusione, la morte propria e la morte di un essere amato. Quando una persona vive una di queste sofferenze, si abbatte, si complica la sua esistenza e si produce una rottura dei ruoli abituali, delle consuetudini quotidiane. In quel momento è quando ha bisogno, più che mai, di aiuto dagli altri, di appoggio incondizionato, di consolazione senza nulla a cambio, in definitiva, di un ‘ospedale di primo soccorso’ per curare le proprie ferite. La Chiesa è chiamata ad essere un ospedale di primo soccorso che si installi, provvisoriamente, dove ci sono le periferie dell’esistenza, per alleviare il dolore, sanare l’anima e trasmettere speranza.

Nessuno desidera trovarsi nelle periferie del mondo e, nonostante ciò, il pianeta è popolato di queste aree di sofferenza. Proprio in questi luoghi è più necessario che in nessun altro, la speranza e la consolazione. La Chiesa in uscita che Giorgio Mario Bergoglio promuove ha una doppia funzione. Da un lato deve curare ed alleviare ferite, dall’altro deve trasmettere il messaggio liberatore e di speranza del Vangelo. Questa è la chiamata che hanno vissuto i fondatori degli istituti e dei movimenti ecclesiali. Questo mandato di Papa Francesco consiste, in fondo, nel ritorno alle origini, ma attraverso i nuovi contesti del mondo attuale.

Papa Francesco pone l’accento sul fatto che la Chiesa non è un’organizzazione non governativa (ONG) di carattere assistenziale. Si trova nel mondo per irradiare Cristo, per comunicare la sua luce e il suo messaggio e per questo deve essere madre e maestra, ospedale di primo soccorso ma anche faro trasmettitore di speranza nella resurrezione.

È compito delle istituzioni educative far conoscere queste periferie del mondo affinché i cittadini più giovani siano consapevoli di questo e non soccombano alla globalizzazione dell’indifferenza. È essenziale lottare contro l’ignoranza, contro la delinquenza e contro l’emarginazione con le armi dell’educazione per evitare la riproduzione di maggiori periferie nel mondo.

Siamo chiamati, tutti, laici, religiosi, presbiteri, ad essere e a vivere questa missione che è il cammino della santità, un cammino che non è proibito a nessuno, che ognuno può percorrere nella propria condizione, con le proprie risorse, talenti ed energie vitali, ma che solo si può portare a termine se si è sostenuti, in ogni istante, da Dio.

[1] S. KIERKEGAARD, Las obras del amor, Sígueme, Salamanca, 2006, p. 320. La cursiva es del autor danés.

[2] H. U. VON BALTHASAR, Teodramática, t. 3, Encuentro, Madrid, 1993, p. 484.