Michal Vojtáš

La migliore forma concreta dell’approccio salesiano all’educazione è la storia educativa di don Giovanni Bosco. Alcuni principi di base sono descritti nel breve “trattatello” sul Sistema Preventivo nell’educazione della gioventù del 1877 che vanno, però, capiti dentro una cornice ricca di altri testi narrativi, educativi, motivazionali e regolamentativi. I testi spiegano spesso la realtà educativa, le buone pratiche in uso oppure descrivono gli allievi esemplari che vengono “raccontati” per essere un’ispirazione per un lettore concreto. Giovanni Bosco racconta gli inizi del suo impegno educativo a Torino, nel dicembre del 1841, come un incontro reale con un ragazzo concreto – Bartolomeo Garelli. Un inizio fatto di dialogo, comprensione della persona e una semplice proposta di catechismo e gioco durante i giorni festivi. Ma collocare l’inizio della sua opera educativa in un incontro è di più, è un paradigma del suo stile educativo. L’incontro, il dialogo, l’assistenza e l’accompagnamento sono i cardini attorno ai quali ruota l’educazione salesiana. Giustamente il papa Giovanni Paolo II ha chiamato don Bosco educatore un “genio del cuore”. Genialità e passione interiore si condensano nella carità pastorale che stimola l’intelligenza pedagogica a tradursi in gesti educativi concreti.1

1.Pedagogia narrativa dell’accompagnamento nel discernimento dei giovani

Partendo dall’analisi narrativa delle biografie dei giovani di Aldo Giraudo,2 voglio sviluppare una breve sintesi dell’accompagnamento salesiano in sette passaggi. Nella narrazione si possono cogliere non solo gli ideali dell’uomo da educare, ma anche alcuni passaggi che descrivono la modalità salesiana di costruire la relazione educativa e di far sviluppare nel giovane delle modalità costruttive in dialogo con le proposte formative dell’educatore e dell’ambiente della casa salesiana.

1.1.Accoglienza

Don Bosco, in quanto educatore paradigmatico delle narrazioni da lui riportate, comincia a costruire la relazione educativa. L’accoglienza piena e cordiale del giovane avviene attraverso la creazione di un canale comunicativo informale, situazionale e simpatico. Accoglienza dei giovani non è solo comunicazione di apertura e di ascolto empatico, che può essere una tecnica che si impara con un training apposito. Secondo papa Francesco si tratta anche di una «capacità del cuore che rende possibile la prossimità».3 Con molta lucidità, Pietro Stella descrive il concetto di “cuore” in don Bosco come «ciò che nell’uomo è capacità di intuizione intellettuale e di amore intenso e istintivo, capacità d’intendere e d’amare che scaturisce dal più intimo dell’unità psicologica dell’uomo».4 Apertura e prossimità al giovane che si incontra presuppone una accettata vulnerabilità dell’educatore. Questa prontezza di mettersi in discussione richiede una maturità psicologica ed equilibrio personale profondo. Senza l’accettazione della sfida di un’apertura profonda, il dialogo rimane accogliente solo in modo formale e la non autenticità viene intuitivamente colta dal giovane.

Nella piena confidenza si crea un “linguaggio del cuore”, espressione tipica di don Bosco, che possiamo vedere in azione nell’inizio dei dialoghi con diversi ragazzi. Con Domenico Savio si crea subito una sintonia: «Allora lo chiamai da parte, e messici a ragionare […], siamo tosto entrati in piena confidenza egli con me, io con lui».5 Michele Magone, che si trova invece nella situazione del gioco guidato da lui in quanto «generale della ricreazione», dev’essere conquistato poco a poco con un dialogo paziente che dimostra in modo non verbale la dichiarazione iniziale di don Bosco: «Io sono un tuo amico».6 Bartolomeo Garelli, nel paradigmatico racconto del 1841, viene difeso da don Bosco con la stessa dichiarazione di amicizia che lo difende in una situazione di vulnerabilità e apre il dialogo di una conoscenza reciproca:

– A lei che importa?

– Importa assai, è un mio amico, chiamatelo sull’istante, ho bisogno di parlare con lui […] L’altro si approssimò tremante e lagrimante per le busse ricevute. – Hai già udita la messa? gli dissi colla amorevolezza a me possibile.

– No, rispose l’altro.

– Vieni adunque ad ascoltarla; dopo ho piacere di parlarti di un affare, che ti farà piacere. Me lo promise. Era mio desiderio di mitigare l’afflizione di quel poveretto e non lasciarlo con quella sinistra impressione verso ai direttori di quella sacristia. Celebrata la santa messa e fattone il dovuto ringraziamento condussi il mio candidato in un coretto. Con faccia allegra ed assicurandolo, che non avesse più timore di bastonate, presi ad interrogarlo così:

– Mio buon amico, come ti chiami?7

Comunque va notato che don Bosco mette in gioco un dialogo equilibrato. L’apertura empatica supera il ruolo dell’educatore impassibile, distante, direttivo che nei tempi di don Bosco veniva correlato ad una religione esigente e austera, a una salvezza difficile da raggiungere e a un Dio giudice giusto, filosoficamente freddo, raggiungibile solo dall’alta speculazione e dalla perfezione morale. Attualmente, dall’altra parte, c’è piuttosto il rischio di una accettazione banalizzante secondo il postmoderno motto dell’anything goes oppure di un I’m ok, you’re ok semplicistico. Una estremizzata centralità del giovane porterebbe a una empatia e accoglienza fino all’annullamento dell’educatore. In questo caso si potrebbe dare ragione a Nietzsche che diede in bocca a Zarathustra l’annunciato sul Dio soffocato e indebolito per la sua compassione con gli uomini.8

1.2.Sfida

Don Bosco mette insieme l’atteggiamento disponibile ed empatico con un’offerta della possibilità di sviluppare i propri doni e talenti. Nell’incontro don Bosco provoca intenzionalmente attesa, desiderio, curiosità che fa uscire il giovane dai propri orizzonti ristretti. Dominico Savio viene messo alla prova circa il suo desiderio e capacità di studio con la sfida di imparare a memoria una pagina delle Letture Cattoliche. Domenico accoglie la sfida, anticipa i tempi e risponde benissimo al guanto lanciato. Don Bosco rimane convinto e gli promette l’accettazione nell’Oratorio.9 Nell’incontro con Magone, don Bosco vede il potenziale del giovane ma percepisce anche il suo essere in una situazione a rischio. Qui si colloca la domanda sfidante:

«Mio caro Magone, hai tu volontà di abbandonare questa vita da monello e metterti ad apprendere qualche arte o mestiere, oppure continuare gli studi?

– Ma sì, che ho volontà, rispose commosso, questa vita da dannato non mi piace più; alcuni miei compagni sono già in prigione; io temo altrettanto per me; ma che cosa devo fare? Mio padre è morto, mia madre è povera, chi mi aiuterà?

– Questa sera fa’ una preghiera fervorosa al padre nostro che è nei cieli; prega di cuore, spera in lui, egli provvederà per me, per te e per tutti».10

La sfida nel dialogo continua e don Bosco non rivela a Magone neanche il suo nome. Lo rimanda ad altri e così provoca la sua curiosità. Il momento di sfida è molto importante per diversi motivi. Il primo è la donazione di speranza – le domande aprono l’orizzonte del giovane oltre la situazione concreta che ha esaurito le sue potenzialità o non ha molti sbocchi per il futuro. Il secondo elemento è la conoscenza del giovane che serve concretamente a capire se il giovane è adatto all’ambiente educativo e se sì, come inserirlo. Il terzo elemento è un allargamento di sguardo con gli occhi di fede – don Bosco consiglia di pregare cordialmente e sperare affidandosi. Infine, l’ultimo motivo è il contesto della libera scelta che don Bosco lascia al giovane. Domenico può, ma non deve imparare la pagina di testo, Bartolomeo potrebbe non venire dopo la messa e Magone potrebbe lasciare perdere la ricerca sull’identità dell’insolito prete apparso in mezzo al gioco.

1.3.Affidamento

Nel rapporto educativo, dopo l’avvicinamento e la sfida che incuriosisce e apre orizzonti, si può arrivare alla risposta positiva del giovane. La corrispondenza alla sfida lanciata, la buona volontà e l’impegno del giovane arrivano alla formulazione di una “promessa”. Il giovane si affida all’educatore ed entra in un rapporto educativo a partire dalla relazione affettiva e dal senso di riconoscenza. In questo momento si riconosce se l’educatore ha trovato il punto accessibile al bene: “In ogni giovane … avvi un punto accessibile al bene e dovere primo dell’educatore è di cercar questo punto, questa corda sensibile del cuore”.11

Ricevuta la lettera di accettazione il nostro candidato era impaziente di venire a Torino. Pensavasi egli di godere le delizie del paradiso terrestre, e diventare padrone dei danari di tutta questa capitale. Pochi giorni dopo me lo vedo comparire avanti. “Eccomi, disse, correndomi incontro, eccomi, io sono quel Magone Michele che avete incontrato alla stazione della ferrovia a Carmagnola”.

– So tutto, mio caro; sei venuto di buona volontà?

– Sì, sì, la buona volontà non mi manca.

– Se hai buona volontà, io ti raccomando di non mettermi sossopra tutta la casa.

– Oh state pure tranquillo, che non vi darò dispiacere. Per il passato mi sono regolato male; per l’avvenire non voglio più che sia così.12

Nei racconti di don Bosco, la sfida accettata da parte del giovane, gli fa scoprire il gusto della tensione tra la situazione concreta e la promessa di un ideale. L’accettazione della persona da parte dell’educatore, come primo passo della relazione educativa, è una promessa consonante con un futuro possibile e positivo. Il secondo passo della sfida si prolunga in un ideale lontano che risuona nelle parti più intime e profonde del giovane (la corda del cuore). L’incertezza del futuro è controbilanciata dalla voglia di lavorare su di sé. La percezione dei propri limiti è compensata dalla fiducia che l’educatore pone nell’educando. Braido colloca qui l’obbedienza educativa che si guadagna con la piena accoglienza ed è funzionale alla crescita del giovane. Domenico Savio «venuto nella casa dell’Oratorio, si recò in mia camera per darsi, come egli diceva, interamente nelle mani dei suoi superiori».13 Qui si gioca l’antropologia del sistema educativo. Ispirandosi a Filippo Rinaldi, terzo successore di don Bosco, possiamo affermare che il Sistema Preventivo si fonda sull’amorevolezza e obbedienza a un ordine di valori universali e ragionevoli. Un sistema repressivo, invece, assume una antropologia liberale e individualistica pensando a un uomo che decide con libero arbitrio di fronte a una legislazione arbitraria e si assume tutte le conseguenze delle sue scelte.

In questa fase, un importante segnale è la gratitudine del giovane che ci fa capire se l’offerta educativa è un dono fatto a lui, oppure un dono che lui si degna a fare all’educatore. Nel racconto su Francesco Besucco è molto forte questa componente della gratitudine fino a commuoverlo a piangere. In quella occasione don Bosco afferma: «Questo giovanetto mediante coltura farà eccellente riuscita nella sua morale educazione. Imperciocché è provato dall’esperienza che la gratitudine nei fanciulli è per lo più presagio di un felice avvenire; al contrario coloro che dimenticano con facilità i favori ricevuti e le sollecitudini a loro vantaggio prodigate rimangono insensibili agli avvisi, ai consigli, alla religione, e sono perciò di educazione difficile, di riuscita incerta».14

1.4.Ambiente

A questo punto l’accompagnamento entra in una nuova fase. Il rapporto educativo tra due persone si inserisce in un ambiente formativo della casa salesiana. L’accompagnamento aal interpersonale diventa comunitario. Dal dialogo lineare si passa alla logica sistemica di tanti interventi e relazioni. Dalla centralità della personalizzazione a una certa standardizzazione degli itinerari educativi. Nella casa salesiana il giovane sperimenta le proposte ricche di valori, di relazioni umane, di attività e di stimoli educativi. Nei ritmi di vita e nel regolamento si dosano in equilibrio i doveri e i tempi di divertimento, le proposte di studio con le proposte di spiritualità.

Nei racconti che ci propone don Bosco si fanno intravedere delle diverse tipologie di giovani. Alcuni, come Besucco, che in ambienti complessi si trovano spaesati, un po’ persi vivono il senso dell’inadeguatezza, disorientamento e inferiorità. Questi hanno bisogno di incoraggiamenti, supporto e vicinanza affettiva. Un secondo gruppo è rappresentato dall’esperienza di Magone che «nei primi giorni egli non provava gusto quasi in nessuna cosa dalla ricreazione in fuori. Cantare, gridare, correre, saltare, schiamazzare erano gli oggetti che appagavano l’indole sua focosa e vivace».15 Il terzo gruppo potrebbe, invece, trovarsi descritto nella figura di Domenico Savio:

Il suo tenor di vita per qualche tempo fu tutto ordinario; né altro in esso ammiravasi che un’esatta osservanza delle regole della casa. Si applicò con impegno allo studio. Attendeva con ardore a tutti i suoi doveri. Ascoltava con delizia le prediche. Aveva radicato nel cuore che la parola di Dio è la guida dell’uomo per la strada del cielo; quindi ogni massima udita in una predica era per lui un ricordo invariabile che più non dimenticava.16

Chiaramente, nella nuova situazione, l’educatore non lascia il giovane sprovvisto di accompagnamento, ma è interessante che don Bosco riporta l’esperienza di assegnare ai nuovi un compagno piuttosto che di un educatore. L’accompagnamento personalizzato è necessario, ma in questa fase è cruciale accompagnare l’intero ambiente, programmare i tempi, equilibrare le esperienze, formare gli educatori, dare qualità e senso alle attività svolte, in poche parole, equilibrare la pedagogia dei doveri con la pedagogia dell’allegria. Nell’esperienza di Magone l’equilibrio tra doveri, tempi definiti e l’allegria della spontanea ricreazione è la cornice del racconto. L’accompagnamento attraverso la cura dell’ambiente educativo era per don Bosco così importante, che l’ha portato negli anni ’50 e ’60 a passare mentalmente dall’oratorio al collegio in quanto opera predominante. Infatti nel collegio si concretizza di più il principio preventivo-protettivo che struttura tutto l’ambiente.

Oltre a seguire “il curricolo visibile” fatto di tempi, spazi e attività è necessario curare “il curricolo nascosto” che consiste nei valori trasmessi da stili relazionali, comportamentali, dinamiche di gruppo o standard impliciti non espressi. In questo senso l’allegria e la fiducia tra educatori ed educandi sono gli indicatori della qualità del processo di accompagnamento attraverso l’ambiente. Lo dimostra il “testamento educativo” di don Bosco – la lettera da Roma, nella quale si desidera che «ritornino i giorni felici dell’antico Oratorio. I giorni dell’amore e della confidenza cristiana tra i giovani e i superiori».17

1.5.Crisi

Dopo un certo tempo trascorso in ambiente educativo, i racconti dell’accompagnamento descrivono un momento di forte crisi. Anzi, si può dire che la crisi è il cuore delle tre biografie. Le crisi sono realtà diverse, legate al carattere, al temperamento, alle esperienze del passato e al grado di maturazione di ciascun protagonista. Anche se diverse, le crisi hanno nei racconti un sintomo comune: decrescimento dell’allegria, la malinconia, o la tristezza.

In Domenico il momento critico sopraggiunge a sei mesi dal suo inserimento a Valdocco. Dopo la predica sulla santità, gli si apre un nuovo orizzonte prima irraggiungibile. Lo stato d’animo in cui si trova è quello del desiderio e della necessità di farsi santo formulato in termini assoluti. La crisi sorge in quanto il forte desiderio di perfezione si scontra con l’immaginario degli strumenti descritti dalla spiritualità popolare dell’epoca: gesti straordinari, penitenze artificiali e azioni eroiche. In questa crisi, chiamata da Giraudo una crisi “mistica”, il compito dell’educatore è l’accompagnamento nell’eccellenza dello svolgimento degli impegni ordinari e delle attività rivolte al bene dei suoi pari. Possiamo aggiungere che il compito di un educatore contemporaneo, oltre all’accompagnamento nella crisi, è anche il suscitare dei desideri dell’eccellenza, della santità. L’orizzontalismo etico odierno senza ideali crea crisi depressive peggiori di quelle che si incontrano nel cammino di perfezione e della collegata purificazione.

Michele Magone, dopo un mese di permanenza nell’Oratorio si confronta seriamente con la qualità dell’ambiente, prende una viva coscienza della propria mediocrità. I suoi compromessi lo portano a una crisi piuttosto “etica”, caratterizzata da rimorsi di coscienza e dilemmi morali. Michele riesce ad uscirne dopo diversi dialoghi rasserenanti con l’educatore che gli suggerisce le ipotesi di soluzione, ma non prende decisioni per lui. È un processo di conversione, che gli permette di accedere ad uno stato di serenità spirituale mai prima sperimentata e di uscirne trasformato su un nuovo livello valoriale interiorizzato, scelto con libertà, totalità e gusto18. In questo caso il ruolo dell’educatore è accompagnare senza sostituirsi alla libertà del giovane (anche per una falsa compassione) in un momento di difficoltà. L’accompagnatore sostiene ma non anestetizza, non cura i sintomi ma pazientemente guida la ricerca di cause profonde della crisi del giovane.

Francesco Besucco, dal canto suo entra in crisi a pochi giorni dal suo arrivo a Torino. Si sente spaesato in un ambiente tanto diverso da quello originario, passa dall’esperienza del pastore delle montagne ad una vita in ambiente relativamente chiuso di città. La sua è una crisi “affettiva”, definita sia dalla nostalgia verso l’ambiente nativo che dal senso di inferiorità nei confronti dei compagni. Don Bosco lo accompagna e lo sostiene affettuosamente proponendogli un progetto di vita semplice:

Pratica tre sole cose e tutto andrà bene […]: Allegria, Studio, Pietà. È questo il grande programma, il quale praticando, tu potrai vivere felice […] Egli prese il suggerimento in senso troppo letterale; e nella persuasione di far veramente cosa grata a Dio trastullandosi, mostravasi ognora impaziente del tempo libero per approfittarne. Ma che? Non essendo pratico di certi esercizi ricreativi ne avveniva, che spesso urtava o cadeva qua o là […] Poverino! usati qualche riguardo, e sii un po’ più moderato […] Da queste parole egli comprese, come la ricreazione debba esser moderata, e diretta a sollevare lo spirito, altrimenti sia di nocumento alla medesima sanità corporale.19

Nel caso di Besucco la sfida per l’educatore è l’accompagnamento nell’equilibrio, nella semplificazione, nella giusta misura, nel buon senso e nella pazienza che riesce a tranquillizzare il vissuto turbolento e instabile.

1.6.Decisione

L’ambiente e l’educatore accompagnano la crisi del giovane verso una decisione. Si può parlare di crisi affettive, etiche, relazionali, mistiche, ecc. ma è interessante notare che la decisione che descrive don Bosco ha tratti comuni. Come elemento da notare è il fatto che la decisione non risolve il sintomo superficiale di un problema, ma va in profondo ed opera una trasformazione interiore. Si tratta proprio di una conversione in termini biblici – una metanoia, ossia cambiamento del modo di pensare, di vedere se stessi e la realtà nel suo insieme. In questa fase dell’accompagnamento ci vogliono almeno quattro qualità dell’educatore: pazienza per arrivare al nucleo della questione; capacità di vicinanza che dà supporto al cammino del giovane in momenti pesanti; molta libertà interiore e, infine, equilibrio interiore per non sostituirsi al giovane ma far maturare la sua libertà.

In linguaggio odierno si potrebbe affermare che l’educatore salesiano accompagna il giovane in un cambio trasformativo non in un cambio transazionale. Nel cambiamento transazionale si opera un semplice problem solving che percepisce la difficoltà del giovane in una delle dimensioni della sua personalità e successivamente progetta, o mette in atto, degli interventi per arrivare al obiettivo – la soluzione del problema e cancellazione del disagio connesso a esso.

Nel cambiamento trasformativo, invece, la visione di un ideale entusiasmante è utilizzata in una costante operazione di correzione di corso delle azioni. Un piano di transizione può benissimo esistere, ma questo non elimina un discernimento sensibile ai vari feedback, che provengono dalla realtà e “chiamano” verso un apprendimento che riconosce il punto dove ci si trova, lo mette in relazione con la visione e corregge il corso delle azioni. Il discernimento è, quindi, una disposizione costante sia nella fase della progettazione che in quella dell’accompagnamento. Nell’educazione trasformativa non si pensa di risolvere il problema una volta per tutte. L’accompagnamento del giovane e la formazione permanente degli educatori sono sempre utili e necessari.

1.7.Impegno

Alla soluzione della crisi seguono, come un’ultima tappa narrativa, le descrizioni degli itinerari educativi intrapresi dai giovani protagonisti sotto la guida dell’educatore. Al di là delle diverse accentuazioni, si può facilmente constatare l’impianto unitario del programma formativo delineato da don Bosco in queste biografie che si rifà all’antropologia cristiana messa in pratica.

C’è un accento sulla pedagogia del dovere, sull’uso scrupoloso del tempo e sulla diligenza nell’adempimento degli impegni dello studio e del lavoro. Il dovere si coniuga con una pedagogia della gioia che trova l’espressione tipica nei momenti di svago e di spontaneità. La gioia trova la sua radice profonda nella pace con Dio e con la propria coscienza. Qui si colloca la pedagogia religiosa e la pratica regolare dei sacramenti dell’Eucarestia e della confessione nella confidenza-accompagnamento del direttore-confessore. L’ultimo componente è la pedagogia dell’impegno che fa del giovane il protagonista, non solo della sua propria crescita, ma di tante forme di servizio verso il prossimo, di belle amicizie e dell’ardore per il bene materiale e spirituale di tutti. Una volta aiutato dai compagni diventa l’accompagnatore dei propri compagni. Una dinamica che ha trovato spazio nella pastorale giovanile salesiana che vede i giovani animatori dei giovani in una logica dell’educazione tra i pari.

Manca una componente per concludere l’immagine completa sul accompagnamento salesiano. Prima abbiamo visto l’accompagnamento personale da parte dell’educatore; l’affiancamento da parte dei compagni esemplari e l’accompagnamento attraverso la cura dell’ambiente, delle proposte, dei programmi, dei tempi, delle classi e la sua cultura relazionale e organizzativa. Ultima modalità è l’accompagnamento attraverso il “gruppo dell’impegno” o le cosiddette compagnie che contribuiscono alla creazione dell’ambiente familiare con il loro inconfondibile carattere di solidarietà, emulazione e libera partecipazione. Pietro Braido osserva come la descrizione più meditata della loro identità sia il racconto sulla Società dell’Allegria di Chieri. Le Memorie dell’Oratorio, redatte da don Bosco nella prima metà degli anni ‘70, riportano norme di comportamento che rispecchiano esattamente le linee della pedagogia più matura di don Bosco:

Per dare un nome a quelle riunioni solevamo chiamarle Società dell’Allegria; nome che assai bene si conveniva, perciocché era obbligo stretto a ciascuno di cercare que’ libri, introdurre que’ discorsi e trastulli che avessero potuto contribuire a stare allegri; pel contrario era proibita ogni cosa che cagionasse malinconia, specialmente le cose contrarie alla legge del Signore. Chi pertanto avesse bestemmiato o nominato il nome di Dio invano o fatto cattivi discorsi era immediatamente allontanato dalla società. Trovatomi così alla testa di una moltitudine di compagni, di comune accordo fu posto per base: 1° Ogni membro della Società dell’Allegria deve evitare ogni discorso, ogni azione che disdica ad un buon cristiano; 2° Esattezza nell’adempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi.20

2.Don Bosco accompagnatore perché discepolo

Sarebbe unilaterale descrivere il modo di accompagnare i giovani da parte di don Bosco senza soffermarci sulla sua esperienza dell’essere accompagnato. Mi sembra logico e convincente affermare, che se uno crede all’accompagnamento, si farà accompagnare o lo desidererà a fare nelle diverse fasi della sua vita. Prima però di farsi accompagnare “di fatto”, la base è di essere discepolo, di avere la mentalità della ricerca dei segni dello Spirito nelle situazioni concrete e di esercitarsi nelle virtù connesse con l’essere discepolo.

Nel 1886, cioè nel periodo della piena maturità della sua esperienza personale, alle ripetute istanze del Rettore del Seminario di Montpellier che lo pregava di esporgli il suo metodo educativo, don Bosco esclamava alla presenza dei membri del Consiglio Superiore della Società Salesiana: “II mio metodo si vuole che io esponga: ma se nemmeno io lo so! Sono sempre andato avanti come il Signore mi ispirava e le circostanze esigevano”. Parole che non vogliono significare, si capisce, che don Bosco andasse senza saper dove, ma che non aveva voluto imprigionarsi in un sistema rigido e stereotipato che gli troncasse la libertà e la sveltezza dei movimenti di fronte a nuove iniziative o a nuove esigenze. La modalità del procedere di don Bosco sembra abbastanza chiara e ha le caratteristiche del discernimento spirituale, cioè della ricerca della volontà di Dio nelle ispirazioni (più soggettive) e nelle circostanze (più oggettive). Nei successivi paragrafi vorrei descrivere alcuni passaggi trasformativi di vita di don Bosco particolarmente forti per il suo discepolato e accompagnamento.

2.1.L’incontro con don Calosso

La descrizione dell’accompagnamento di don Bosco da parte di don Giovanni Calosso che troviamo nelle Memorie dell’Oratorio risponde allo schema di accompagnamento descritto prima nelle biografie di giovani esemplari.

  1. Il primo incontro avviene per strada dove don Calosso si accorge in mezzo ad altri che camminavano per la strada di un «fanciullo di piccola statura, col capo scoperto, capelli irti ed inanellati» che camminava in gran silenzio. Lo saluta accogliendolo e facendo una battuta di apprezzamento della mamma.
  2. Poi lo sfida sulla predica sentita dicendogli: «Che cosa avrai tu mai potuto capire!» Dopo la risposta esaustiva, Calosso gli apre la possibilità di studiare e promette l’aiuto per il superamento di problemi famigliari.
  3. Don Bosco si affida alla guida di don Calosso che gli fa «gustare che cosa sia la vita spirituale», in mezzo allo studio, ai doveri e all’allegria «dei soliti trattenimenti festivi nel prato».
  4. In pagine seguenti si riprende il tema dell’ambiente di vita – la famiglia. Il periodo tranquillo di inverno nel quale i lavori da contadino non richiedevano un grande impegno sono passati e il fratello Antonio cominciava ad agitarsi sul fatto che Giovannino facesse il “signorino”.
  5. La crisi seguente avviene come uno conflitto tra i due fratelli. Il sogno di studiare di Giovanni si scontra con la mentalità e le esigenze della vita contadina.
  6. La decisione che risolve la crisi è tipica per la combinazione amorevolezza-obbedienza che è fondamentale per il Sistema Preventivo. Giovanni si affida interamente al suo accompagnatore e comincia a condividere la vita con il cappellano, andando a casa solo per dormire. Afferma che «D. Calosso per me era divenuto un idolo. L’amava più che il padre, pregava per lui, lo serviva in tutte le cose».
  7. Il suo impegno fa salti di qualità, lavora e studia con gusto e responsabilità totale. «Io faceva tanto progresso in un giorno col cappellano, quanto non avrei fatto a casa in una settimana». È sintomatico che dopo la morte di don Calosso, don Bosco continua il discorso dell’accompagnamento. Descrive subito nel paragrafo seguente il suo incontro con «un novello benefattore» e il suo futuro accompagnatore, don Giuseppe Cafasso».21

2.2.La scelta vocazionale

Don Bosco viveva all’interno di una mentalità, che esasperava l’importanza della scelta vocazionale fino a determinarla decisiva per la salvezza o la dannazione eterna che portava inevitabili riflessi ansiogeni. Le prime strategie per “maneggiare” il dilemma vocazionale furono due: la strada dell’obbedienza e la strada della razionalità. Nell’obbedienza al suo confessore Giuseppe Maria Maloria, considerato il più dotto ecclesiastico di Chieri, Giovanni si sarebbe aspettato indicazioni più concrete riguardanti la scelta della vocazione. Il giovane Bosco era molto contento della sua guida e continuerà a confessarsi da lui anche in Seminario, ma non gli bastava il suo consiglio in merito: «In questo affare, rispondevami, bisogna che ciascuno segua le sue propensioni e non i consigli altrui».22 Si possono fare varie ipotesi sulla scelta di Maloria di non esprimersi direttamente, ma rimane il fatto che Giovanni non poteva scegliere obbedendo semplicemente a una direttiva altrui. La seconda alternativa fu quella di fare una scelta razionale. Gli elementi che entrarono in gioco furono: il tempo giusto per la scelta (l’ultimo anno della scuola superiore), la decisione di non fare affidamento sui sogni, la considerazione dell’alta dignità dell’ideale sacerdotale, la consapevolezza delle proprie debolezze e dei pericoli del mondo e infine la questione economica. Il risultato razionale del processo decisionale fu la domanda di entrare tra i Francescani.23

La scelta razionale non poteva essere eseguita per una forte percezione di una inquietudine interiore tra i francescani dove il giovane Bosco non avrebbe trovato la pace interiore tanto ricercata. Da qui in poi si sviluppa il modo tipicamente boschiano di discernere e di farsi accompagnare. Giovanni Bosco lo racconta retrospettivamente nelle Memorie dell’Oratorio in un contesto di discernimento nella preghiera che può essere descritto fenomenologicamente come creazione di una visione del futuro permeata dalla fiducia nella Provvidenza di Dio. Giovanni fa una novena secondo questa intenzione e riceve i sacramenti con grande fervore. L’affidamento al consiglio di un uomo saggio, il sacerdote zio di Luigi Comollo, più che una decisione definitiva, è una collocazione all’interno di un cammino di discernimento permanente per tutta la vita. Infatti, il consiglio dello zio di Comollo va in questa direzione, suggerendo a Giovanni di entrare in seminario dove potrà conoscere meglio quello che Dio vuole da lui. In queste situazioni il discepolato di Giovanni Bosco ha fatto un salto trasformativo, percependosi come un discepolo alla ricerca permanente della voce dello Spirito nelle situazioni concrete. Il centro del suo discepolato è la mentalità della ricerca e non la “materialità” dell’accompagnamento che sembrerebbe diventare più occasionale ma non per questo meno profondo.

2.3.La scelta della prevenzione propositiva

Trovandosi a Torino, il giovane prete Giovanni Bosco non decide subito il suo campo di lavoro ma si affida alla formazione e accompagnamento nel Convitto Ecclesiastico da parte di san Giuseppe Cafasso. Lavorando nelle opere di rieducazione della marchesa Barolo e frequentando le carceri di Torino conosce i problemi pressanti dei giovani dell’epoca. È in questo contesto che don Bosco fa un discernimento che lo porta ad un altro salto di qualità – la scelta della strategia preventiva propositiva che è il cuore del Sistema Preventivo. Don Bosco scrive a riguardo delle sue visite nel carcere: «Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito perché abbandonati a se stessi. Chi sa, diceva tra me, se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro, che ritornano in carcere?»24

L’attenzione preventiva di don Bosco è così frutto di un discernimento accompagnato che va in profondo e affronta le cause dei problemi che affliggono i giovani. La profondità del discernimento non è contrapposta, ma aiutata dall’inserimento nel mondo concreto dei giovani. La sua non è solo una risposta all’immediatezza dei problemi pressanti che rischierebbe di essere assistenzialismo, ma è una formazione preventiva che anticipa la corruzione di chi si trova “a rischio”. Don Bosco risponde concretamente alle sfide del mondo giovanile con la proposta preventiva dell’oratorio festivo: l’amicizia in una città anonima in crescita demografica e in fase di prima industrializzazione, l’istruzione religiosa per i ragazzi senza parrocchia, il sano divertimento per coloro che spendono la maggioranza del loro tempo lavorando, le scuole serali per gli analfabeti, ecc.

2.4.Ulteriori evoluzioni del discepolato di don Bosco

Nei passaggi descritti si è visto passare don Bosco da uno stile di accompagnamento “totalizzante” con don Calosso ad uno stile maturo di discepolato. Riassumendo lo vediamo che da adolescente, nei suoi 14-15 anni, si lascia guidare con lo stesso stile che propone ai suoi ragazzi nelle biografie edificanti. Ma nella scelta concreta della sua vocazione si trova nella necessità di entrare in una logica più matura, di un discernimento costante. Sono scartate sia l’obbedienza cieca che una pura scelta razionale. La scelta cade sulla strada consigliata del seminario che gli permette di concretizzare ulteriormente la sua missione. Infine, in un terzo livello, si vede il proseguire nel discernimento sotto la guida del Cafasso che allarga gli orizzonti non solo a discernere nella vita personale ma anche nelle modalità concrete del lavoro educativo-pastorale.

Negli anni ’60 possiamo vedere il declino dell’oratorio festivo a Valdocco, l’esperienza fallita con il collegio di Giaveno, la problematica costruzione della basilica di Maria Ausiliatrice, il lungo processo dell’approvazione delle Costituzioni, tentativi di espansione in Piemonte con i diversi collegi affidati a direttori giovanissimi. Negli anni ’70 cominciano invece le missioni in America Latina, le controversie con l’arcivescovo Gastaldi per cui non era né semplice né immediato prevedere razionalmente il futuro della Congregazione e dell’opera che cominciò in condizioni molto modeste. La creatività operativa di don Bosco è un frutto del discernimento continuo che lo fa distaccare da una sola modalità di lavoro (per esempio quella dell’oratorio festivo) e gli dà una libertà interiore che sa affidarsi sempre di più alla Provvidenza. La sua genialità operativa e il discepolato eroico si trovano a rafforzarsi, a essere sinergici.

Un ulteriore aspetto del discepolato di don Bosco si può osservare nei racconti dei suoi sogni, nei quali è sempre accompagnato da un personaggio: don Cafasso, don Alasonatti, il conte Cays, Silvio Pellico, la marchesa Barolo, ecc. Perfino Domenico Savio, per diverse volte, guida don Bosco nell’apertura di orizzonti nuovi. Così si compie il percorso – il discepolo eccellente è diventato maestro del suo maestro. È interessante come lo storico Pietro Stella coniuga nella sua valutazione il realismo e i sogni come complementari nell’agire del nostro Santo:

Ci si accorge così come non sia facile stabilire l’atteggiamento di Don Bosco tra i sogni, ch’egli sente o presenta come profetici, e la realtà. Si ha impressione ch’egli agisca nella persuasione di avere un mandato dall’alto, una mèta da raggiungere, qualcosa da realizzare anche se non ne percepisca – attraverso i sogni – tutta l’entità. Don Bosco avverte che lo svolgersi degli eventi fa configurare la Congregazione non come egli l’avrebbe voluta, o come credeva che dovesse divenire […] Le sue idee si modificano, si precisano condizionate dagli avvenimenti seguiti sempre con attenzione, non per accettarli passivamente, ma per adeguare a essi, con continua attività creatrice, la nuova costruzione […]. Non è prammatismo, perché su tutto domina lo scopo ben fisso e una serie di principi religiosi e morali: è abilità e ricerca della tempestività: è radicale ottimismo nella persuasione che il divenire delle cose offre sempre una base accettabile su cui impiantare i propri germi, nella fiducia che essi, anche se condizionati da “tristissimi tempi”, troveranno sempre modo di superare le bufere e di fruttificare».25

3.Conclusione: Educare e progettare oggi con uno stile dell’accompagnamento

L’analisi fenomenologico-narrativa delle esperienze del fondatore della Famiglia Salesiana ci hanno permesso di accedere al suo stile di accompagnamento in sette passaggi. Questo stile trova corrispondenze con la teoria e la prassi del cambiamento trasformativo e lavora su tre piani dell’accompagnamento interpersonale, di gruppo e dell’ambiente. L’intervento dell’educatore è radicato nell’esperienza di essere stato accompagnato a sua volta, e la credibilità dei suoi gesti si fonda nella profonda identità dell’educatore accompagnatore perché discepolo. Penso che i sette passaggi e lo stile salesiano siano validi anche attualmente ma vanno considerate alcune variabili di un contesto che è cambiato. Brevemente segnalo alcuni strumenti attuali che possono illuminare la pratica dell’accompagnamento educativo dei giovani verso le scelte di vita.

3.1.Il progetto di vita come strumento pratico dell’accompagnamento

Visto il contesto postmoderno senza riferimenti forti e condivisi, non basta appellarsi ai “valori”, “virtù” o ai “doveri di stato” come prima, in una società nella quale la maggioranza della popolazione era educata da valori e un immaginario cristiano condiviso. L’educatore deve lavorare esplicitando insieme con il giovane la visione, i valori e accompagnare la messa in pratica di strategie personalizzate. Un strumento utile è il “progetto di vita” scritto e co-creato con l’educatore che è soprattutto nel ruolo di facilitatore. Il progetto non è solo una dichiarazione lineare di valori, obiettivi, attività e indicatori, ma si trova nella dinamica del discernimento trasformativo che implica, come nelle narrazioni di don Bosco, sfide, crisi, decisioni e salti di qualità. Il Quadro di Riferimento della Pastorale Giovanile Salesiana dice a proposito: «In questa logica, come cristiani, leggiamo il progetto di vita sotto il segno della vocazione, chiamata di Dio che suscita, sostiene e rafforza la libertà del giovane, rendendola capace di corrispondere con libertà e con gioia alla propria identità e missione […] È in questo spazio che si colloca anche la proposta della fede e la risposta del progetto di vita».26

Il progetto di vita si può costruire analizzando con il giovane i suoi obiettivi, domandandosi il perché di quell’obiettivo per scoprire razionalmente ed emotivamente se è una finalità vera o solo un mezzo per arrivare a un altro obiettivo. Lo scopo della catena delle domande è arrivare all’ultimo desiderio intrinseco che può costruire la base della visione-vocazione ed è una finalità in sé. Un altro percorso si può percorrere insieme ai giovani visualizzando il futuro, immaginando i diversi anniversari della vita, il proprio pensionamento oppure funerale, in una sorte di “esercizio della buona morte” propositivo. Successivamente si verbalizzano i contenuti dell’immaginazione descrivendo il racconto, le persone di riferimento, gli auguri desiderati per i vari ruoli della vita attuale. Da qui può partire un lavoro su obiettivi e strategie nella vita del giovane.27

3.2.Lo stile organizzativo isomorfico di accompagnamento

Se l’accompagnamento è per l’educatore un compito lavorativo da svolgere, può portare a buoni risultati. Penso, che il processo difficilmente arriverà agli effetti presenti nelle biografie dei giovani esemplari, perché manca la forza della testimonianza e la conoscenza dell’educatore che deve essere “avanti” nel conoscimento di sé, delle proprie motivazioni per lavorare costruttivamente con le dinamiche di transfert-controtransfert. È necessario che l’accompagnamento diventi una “forma” che struttura a diversi livelli l’organizzazione dei processi e degli ambienti educativi. Per questo si può parlare di uno stile organizzativo isomorfico.

In questa direzione, ma con un taglio specifico, si muove lo studio del salesiano tedesco Reinhard Gesing, esperto nel campo della formazione salesiana. In uno dei suoi scritti compara la funzione del colloquio con il direttore nella tradizione salesiana e il dialogo di supervisione dell’impiegato con il suo superiore in una concreta azienda multinazionale.28 Attraverso il confronto dei due modi di dialogare, l’autore giunge alla possibilità di apprendimento per le due organizzazioni: i salesiani potrebbero valorizzare di più il colloquio (e ritornare alla pratica), anche grazie ai recenti studi di natura gestionale applicati nella sfera aziendale; il ruolo del direttore si potrebbe allargare includendo alcune funzioni del coach nel dare e ricevere il feedback; si potrebbe porre in risalto l’importante metodologia del colloquio; e, infine, si potrebbe allargare la prassi del colloquio anche ai laici collaboratori nelle opere salesiane come uno strumento di coordinamento e formazione continua. Lo stile salesiano va, chiaramente, molto al di là di una supervisione aziendale ma come dato di fatto a volte non c’è neanche quella. Per un falso rispetto dell’autonomia degli educatori e per i retaggi storici di generazioni spesso già passate, non si pratica il colloquio salesiano che ha un potenziale educativo e di coordinamento organizzativo non indifferente.

3.3.La progettazione trasformativa delle strutture educative

Se l’accompagnamento salesiano è il principio davvero isomorfico all’interno di una struttura educativa, dovrebbe incidere non solo sulla comunicazione e i processi interpersonali di supervisione, empowerment, facilitazione, ecc. ma anche a livello di “cultura organizzativa” e di identità dell’istituzione. Detto con concetti più concreti, l’accompagnamento deve entrare anche come logica di fondo per la progettazione strategica. Dagli studi svolti in precedenza si può concludere che il modello dell’uomo che sta alla base della progettazione educativo-pastorale salesiana è l’uomo razionale-volontaristico legato alla progettazione per obiettivi. All’interno di questa logica transazionale, come primo passo si analizza la realtà, poi si progettano obiettivi e le seguenti attività e, infine, si fa la verifica. Di per sé, se il progettista ha abbastanza consenso per far approvare il progetto, non si necessità della collaborazione di altri e se sì solo come portatori di informazioni e/o esecutori.

In una logica trasformativa, invece, la progettazione può essere concepita soprattutto come strumento formativo della comunità educativo-pastorale e solo secondariamente uno strumento manageriale. Durante il processo di progettazione si dovrebbero accompagnare i processi di confronto su aspetti più profondi dell’agire educativo: l’identità interiore dell’educatore, le virtù e gli atteggiamenti da avere, i paradigmi, le aspettative, le paure, le speranze e gli aspetti vocazionali più profondi.

Per garantire il giusto peso alla trasformazione, la sequenza dei momenti della progettazione potrebbe consistere in cinque passaggi. Si parte dalla descrizione prevalentemente razionale della situazione e dalla verifica dei cicli progettuali precedenti che presentano una varietà di stimoli e sintomi. Nel secondo momento la comunità scende nella parte più emotiva; elabora una meta-analisi dei paradigmi collegati con i modi abituali di pensare e di sentire, collegati con le esperienze e con la storia personale o di gruppo, per condividere e mettere in discussione paradigmi paralizzanti e/o ideologie che si contrastano. Nel terzo momento la comunità discerne la presenza dello Spirito che parla nella realtà per accogliere una vocazione che viene donata e che ha il potenziale di cambiare la prospettiva educativo-pastorale di fondo. La chiamata viene esplicitata narrativamente in una visione nel quarto momento della progettazione: in esso è anche opportuno fare sperimentare la visione in piccoli prototipi per avere già i primi feedback dalla prassi. In questo modo si recupera la modalità tipica di “progettare” di don Bosco, che raccontando propone ai suoi giovani ed educatori le storie educative dei ragazzi modello o di situazioni paradigmatiche. Solo dopo si arriva al quinto momento della progettazione operativa, che porta a termine la visione nella realtà, stabilisce obiettivi e strategie nello sforzo di allineare tutti i sistemi nella direzione della visione anche con lo strumento della regolamentazione, tipica di don Bosco.29

Bibliografia

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1 Cfr. E. Viganò, La nuova educazione, in «Atti del Consiglio Generale» 72 (1991) 337, pp. 27-30.

2 Cfr. A. Giraudo, Maestri e discepoli in azione, in G. Bosco, Vite di giovani. Le biografie di Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco. Saggio introduttivo e note storiche a cura di Aldo Giraudo, LAS, Roma 2012, pp. 28-30.

3 Francesco, Evangelii Gaudium, n. 171. Il paragrafo seguente è il contesto dell’espressione citata: «Abbiamo bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più che sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale».

4 P. Stella, Don Bosco, Il Mulino, Bologna 2001, p. 60.

5 G. Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, in Istituto Storico Salesiano, Fonti Salesiane. 1. Don Bosco e la sua opera. Raccolta antologica, LAS, Roma 2014, p. 1039.

6 G. Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, in Fonti Salesiane, p. 1092.

7 G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, in Fonti Salesiane, pp. 1235-1236.

8 Cfr. l’introduzione al quarto libro di F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra: Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1986.

9 Cfr. Domenico Savio, in Fonti Salesiane, pp. 1039-1040.

10 Bosco, Michele Magone, in Fonti Salesiane, p. 1093.

11 G.B. Lemoyne, Memorie Biografiche di Don Giovanni Bosco, vol. 5, p. 367.

12 Bosco, Michele Magone, in Fonti Salesiane, p. 1094.

13 Bosco, Domenico Savio, in Fonti Salesiane, p. 1040.

14 G. Bosco, Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera, in Fonti Salesiane, p. 1134.

15 Bosco, Michele Magone, in Fonti Salesiane, p. 1095.

16 Bosco, Domenico Savio, in Fonti Salesiane, p. 1040.

17 G. Bosco, Lettera da Roma alla comunità salesiana dell’Oratorio di Torino-Valdocco, in Fonti Salesiane, p. 451.

18 Cfr. Giraudo, Maestri e discepoli in azione, in Bosco, Vite di giovani, pp. 29-30.

19 Bosco, Francesco Besucco, in Fonti Salesiane, pp. 1135-1136.

20 Bosco, Memorie dell’Oratorio, in Fonti Salesiane, p. 1193.

21 Cfr. Idem, pp. 1182-1186.

22 Cfr. Idem, p. 1210.

23 Cfr. Ibidem.

24 Idem, p. 1234.

25 P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. 1: Vita, LAS, Roma 1979, pp. 161-162.

26 Dicastero per la Pastorale Giovanile Salesiana, La pastorale giovanile salesiana. Quadro di riferimento fondamentale, SDB, Roma 32014, p. 53.

27 Cfr. M. Vojtáš, Reviving Don Bosco’s Oratory: Salesian Youth Ministry, Leadership and Innovative Project Management, STS Publications, Jerusalem 2017, 324 pp. 228-232. Versione italiana: ID., Progettare e discernere. Progettazione educativo-pastorale salesiana tra storia, teorie e proposte innovative, LAS, Roma 2015, pp. 263-266.

28 Cfr. R. Gesing, Das Mitbrudergespräch in einer Ordensgemeinschaft und das Mitarbeitergespräch im Unternehmen. Ein vergleichende Darstellung unter besonderer Bezugnahme auf das Mitbrudergespräch bei den SDB und das Mitarbeitergespräch bei RWE, Manoscritto della serie “Benediktbeurer Schriftenreihe zur Lebensgestaltung im Geiste Don Boscos”, Benedikbeuern 2004.

29 Cfr. Vojtáš, Reviving Don Bosco’s Oratory, pp. 258-283 oppure ID., Progettare e discernere, pp. 283-314.