1. La rilevanza ecclesiale delle Cause.

Collaborare, a vario titolo, a una Causa di beatificazione e canonizzazione significa anzitutto avvertire la vita di unServo o di una Serva di Dio come rilevante e bella, sentirsi da essa raggiunti nella concretezza del vissuto e dapprima intuire – quindi esplicitare – quella capacità di generare al bene che pare esserle strettamente associata.

Gli ultimi traguardi raggiunti dalla Postulazione Generale Salesiana paiono essere, in tal senso, particolarmente significativi.

La beatificazione di István Sándor martire, nel 2013, ha permesso di riflettere sull’apostolato di un Salesiano coadiutore nel mondo dei lavoratori, approfondendo altresì una modalità di testimoniare la fede direttamente connessa alla vita buona del Vangelo (Sándor si espone per essere rimasto con i giovani lavoratori, non direttamente per avere difeso la fede tramite la proclamazione ufficiale del Credo).

Le riconosciute venerabilità di Stefano Ferrando, Octavio Ortiz Arrieta Coya, José “Vandor” Wech e Francesco Convertini obbligano a riflettere sulla fecondità della vita missionaria, fatta propria in modo più esplicito da Ferrando e Convertini – due italiani in India – e da Vandor – un ungherese a Cuba – ma assunta anche da Ortiz Arrieta Coya, nato a Lima e consacrato vescovo della lontana e problematica diocesi peruviana di Chachapoyas.

La beatificazione nel 2017 di Titus Zeman, martire per le vocazioni, sottolinea l’attualità dell’accompagnamento dei giovani incamminati verso il sacerdozio ministeriale e insiste – attraverso la modalità, così concreta, dei passaggi del fiume Morava – su quelle tappe di ascolto, discernimento e accompagnamento, sostanziate di ascolto della Parola di Dio e intensa vita sacramentale, che contraddistinsero la vita di don Titus e divengono di determinante rilevanza anche per l’oggi.

La Causa, recentemente introdotta in Brasile, di Padre Rodolfo Lunkenbein e Bororo Simão presenta il frutto più pieno dell’apostolato in stile salesiano: una piena consonanza spirituale tra chi porta l’annuncio e dà la vita per esso (Padre Rodolfo) e chi riceve l’annuncio e dà la vita per il missionario (Simão).

Tali Cause incoraggiano a riscoprire aspetti particolari dell’unico carisma salesiano (le vocazioni, il mondo del lavoro, le missioni) e rafforzano il legame con queste figure esemplari, che aiutano a crescere nella fede e nell’apostolato a servizio dei giovani.

In tal senso è non solo legittimo, ma profondamente umano, che una Causa sia animata nel popolo di Dio – e trattata dinanzi alle sedi competenti – per l’impatto positivo da essa esercitato anzitutto su un gruppo, più o meno esteso, nella Chiesa: le persone che hanno condiviso con il Servo di Dio un tratto di cammino terreno e sono dunque giudicate competenti sulla sua vita e morte (sono i “testimoni de visu”); le persone cui questa vita ha “parlato” pur se essi hanno incontrato il Servo di Dio grazie alla rilevanza della sua vita, agli effetti del suo sacrificio ed – eventualmente – alla profondità dei suoi scritti (sono i “testimoni de auditu”).

L’istintiva vicinanza di alcuni per queste figure e il loro messaggio, la simpatia che esse suscitano nei giovani e quella promessa di vita piena che trova attestazione nella loro gioia divengono requisiti essenziali. Sussiste, in altri termini, come una tacita promessa di bene e pienezza di cui i Servi e le Serve di Dio si fanno portatori, ben prima di essere riconosciuti venerabili o dichiarati beati o santi: questa stessa “promessa di bene” – che in gergo tecnico è poi il fumus boni iuris (e coincide con la ragionevole speranza di felice esito della Causa) – è del resto primariamente necessaria perché alcuni uomini o donne possano appunto essere definiti “Servi” e “Serve di Dio”, quando il vescovo introduca l’Inchiesta diocesana.

C’è tuttavia un secondo, determinante, aspetto delle Cause cui occorre prestare attenzione. Esso problematizza l’insistere sulla rilevanza dei “santi”[7] per alcuni (una ispettoria; un gruppo della Famiglia Salesiana; poche anche sequalificate persone): si tratta della rilevanza ecclesiale, requisito necessario perché ogni Causa abbia diritto di essere trattata dinanzi alla sedi competenti.

Occorre, in altri termini, dimostrare che un Servo o una Serva di Dio ha sì parlato “a me” (o “a noi”), nell’oggi, ma è (o potrebbe essere) altresì capace di interpellare contesti molto diversi da quelli che l’hanno generato/a. Occorre anche poter dimostrare che la fecondità di tale suo impatto non è meramente supposta – per via presuntiva, congetturale (“noi riteniamo che… allora…”) – ma sia già all’opera e tenda, nel corso di alcuni anni, a diffondersi e accrescersi.

Vera, insomma, è quella santità che, per il fatto di avere parlato anzitutto ad alcuni, prima o poi parla a molti. La rilevanza ecclesiale si edifica aggirando barriere linguistiche, storiche, culturali. Inoltre vince la lontananza di spazio e tempo con quell’istintivo senso di familiarità sempre sperimentabile in presenza di santi veri.

Le precise condizioni in cui una persona è divenuta santa, nell’ambito della comunità ecclesiale di appartenenza, devono cioè potersi come dilatare (pur senza perdere in specificità) a contesti “altri”, potenzialmente molto lontani e diversi: alla giovane beata laica Chiara Badano è stato intitolato un monastero di clausura; vi sono contemplativi santi che aiutano le famiglie, ecc.

Tale rilevanza ecclesiale, con la sua necessaria trasversalità, è requisito essenziale: segno che non una qualche persuasione umana ma lo Spirito stesso è all’opera; che quella vita è attuale non perché adeguata alle mode, bensì perché ancorata a Cristo. Egli è lo stesso ieri, oggi, sempre.

Si tratta di qualcosa che non rientra nel potere dell’uomo ottenere: ma anzitutto di un dono, da accogliere con gratitudine e accompagnare con responsabilità.

2. Le Cause dei santi come «Cause maggiori».

Scrive Benedetto XVI nella Lettera ai partecipanti alla Sessione plenaria della Congregazione delle Cause dei Santi, il 24 aprile 2006, includendo un riferimento all’Enciclica Deus caritas est:

«[i santi] sono i veri portatori di luce all’interno della storia, perché sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore» [cfr. Enciclica Deus caritas est, n. 40]. Per questo la Chiesa, fin dall’inizio, ha tenuto in grande onore la loro memoria e il loro culto, dedicando, nel corso dei secoli, un’attenzione sempre più vigile alle procedure che conducono i Servi di Dio agli onori degli altari. Le Cause dei Santi, infatti, sono considerate “cause maggiori” sia per la nobiltà della materia trattata sia per la loro incidenza nella vita del popolo di Dio. [Perciò:] le Cause vanno istruite e studiate con somma cura, cercando diligentemente la verità storica, attraverso prove testimoniali e documentali “omnino plenae”, poiché esse non hanno altra finalità che la gloria di Dio e il bene spirituale della Chiesa e di quanti sono alla ricerca della verità e della perfezione evangelica.[8]

Alla «nobiltà della materia trattata»[9] (virtù eroiche; martirio; ora anche oblatio vitae) si associa, pertanto, l’«incidenza [di tali Cause] nel popolo di Dio»:[10] è l’intreccio, essenziale al buon esito della Causa stessa, tra il merito oggettivo di alcune figure e la loro capacità di lasciare un segno.

Si configurano così due alternative, molto nette.

La prima: alcune vite, pur essendo oggettivamente meritevoli, tendono a restare confinate entro il contesto d’origine. Il ricordo di queste persone “buone” resta vivo in chi le ha conosciute, e può portare a iniziative per ricordarle e valorizzarne le benemerenze. Sussiste tuttavia come una fatica nel parlarne “all’esterno”: tutto va programmato, organizzato, soppesato. Ogni iniziativa richiede un dispendio di energie sproporzionato rispetto agli esiti scarsi che consegue. Quasi assente, inoltre, la fama di segni.

La seconda: alcune persone, forse molto umili, semplici, nascoste (e persino ostacolate da sofferenze e incomprensioni di vario tipo) d’un tratto – già in vita e con slancio crescente dopo la morte – cominciano ad attrarne e interpellarne molte altre. Si innesca allora un meccanismo virtuoso: l’iniziativa umana non “precede” più l’opera dello Spirito, presumendo talvolta quasi di forzarla o sostituirsi ad essa; bensì la segue, per assecondarla e farsene interprete. Prevalgono allora sentimenti di stupore, gratitudine, gioia. L’impegno non è sforzo arido, ma esperienza dinamica, “di scoperta in scoperta”; slancio nell’ adeguarsi a qualcosa che sarà sempre un “passo più in là”, eppure vicinissimo e mai scoraggiante. Le vite di tali Servi o Serve di Dio, per quanto note, paiono allora sempre nuove: sono come un pozzo molto profondo, che mai si esaurisce e dal quale è anzi possibile trarre cose «nuove e antiche» (cf. Mt 13, 52), quanto più si accresca la volontà di conoscere, comprendere, testimoniare. Anche quando tutto delle vite “sante” sembri ormai noto, esse sono vite che non ci si stanca mai di ripercorrere e offrono doni sempre nuovi.

Nel primo caso, ci si trova in un contesto tendenzialmente chiuso, autoreferenziale. Nel secondo, in un contesto aperto, dinamico, rivolto agli altri e contraddistinto da una forte responsabilità ecclesiale. “Bonum est diffusivum sui”, recita l’adagio latino: vi è qui una fecondità, sulle cui ragioni è normale si indaghi chiedendo l’Introduzione di una Causa.

Le vere virtù, infatti, sono transitive, performative, irradianti: impattano positivamente su chi le esercita e trasfigurano il contesto circostante. La santità si misura anche dai suoi effetti.

Il martirio è fecondo per la Chiesa (“il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”).

Il dono della vita (l’oblatio vitae, la “terza via” introdotta nel luglio 2017) riconduce al cuore del messaggio cristiano e interpella a incarnarlo nelle situazioni di ogni giorno.

La rilevanza ecclesiale delle Cause, intesa come l’impatto – positivo, duraturo e diversificato – che esse esercitano nel tempo – è pertanto un aspetto diverso, ma complementare e coessenziale a virtù / martirio / dono della vita.

È anzi possibile trattare una Causa solo se ai segni necessari (come per esempio le virtù, perché senza virtù non si è santi) si associano i segni contingenti (ovvero la fama di santità[11] e di segni, che esplicitano appunto la rilevanza ecclesiale di una figura e ne certificano l’autorevolezza per gli altri). Nel caso dei santi “dimostrabili”, in altri termini, anche i segni in sé contingenti diventano necessari.

Chi manca di tali requisiti (la fama non serve per essere santi bensì per venire riconosciuti tali) non può procedere verso gli onori degli altari.

In tal caso o le Cause non devono essere introdotte; oppure, se già introdotte, si bloccheranno presso il Vaticano, che giustamente insiste su tale intrinseca capacità di un Servo o di una Serva di Dio di “plasmare” il “vissuto credente” nella Chiesa, con effetti certificabili nello spazio (= in molti luoghi) e nel tempo (= con una proiezione verso il futuro, una propensione a “fare storia”).

3. La fama di santità e la fama di segni.

Tale “rilevanza ecclesiale”, identificata da Benedetto XVI quale elemento essenziale alle Cause dei santi, trova legittimazione anzitutto nei due requisiti della fama di santità e della fama di segni.

Prospero Lambertini (poi Benedetto XIV), il grande legislatore delle Cause dei santi, definisce la fama di santità e di segni come:

la reputazione o la comune opinione sulla purezza e integrità di vita e sulle virtù, [esercitate] non in modo occasionale, ma attraverso atti continui, in ogni occasione, […] al di sopra del modo comune di praticare degli altri uomini o donne giusti, da qualche servo o serva di Dio […], nonché sui miracoli compiuti da Dio in seguito alla loro intercessione; in modo che, nata la devozione verso di essi in uno o più luoghi, vengano da molti invocati nelle loro necessità e, in base al giudizio di molti uomini autorevoli, vengano stimati degni che dalla Sede Apostolica siano riportati nel catalogo dei beati o dei santi.[12]

La fama di martirio, invece,

in genere non è altro che la reputazione o la comune opinione che qualcuno o qualcuna abbia pazientemente sopportato la morte ad essi inflitta per la fede di Cristo o per una virtù che faccia riferimento alla fede di Cristo, e che siano seguiti segni o miracoli a loro intercessione, per manifestare la loro gloriosa morte; in modo che, nata presso molti la devozione, siano invocati nelle loro necessità, e in base al giudizio di uomini autorevoli vengano stimati degni di essere riportati dal sommo pontefice nel catalogo dei beati o dei santi.[13]

La fama, pertanto, riguarda vite degne di essere ricordate per: l’esemplarità delle virtù; l’evidenza del martirio [, il dono della vita]; i «miracoli compiuti da Dio in seguito alla loro intercessione».[14]

La Chiesa esige che tale fama:

–          attesti una maturità di fede e di vita superiore a «quella degli altri uomini o donne giuste»,[15] una rilevanza di metodo e merito;[16]

–          sia comprovata da testimoni attendibili (la fama è “cum testibus” e “cum indicibus”, cioè specifica, mentre le voces sono “sine testibus” e “sine indicibus”, cioè generiche);

–          sussista durante la vita, sia confermata al momento della morte e persista, duratura nel tempo anzi sempre crescens, con il dinamismo proprio dello Spirito Santo che ne è il reale autore;

–          sia spontanea, mai “procurata ad arte” e dunque esito di artificio umano; mai mera concessione al bisogno di alcuni gruppi di auto-promuoversi, contemplando se stessi, un po’ narcisisticamente, in uno preso tra i molti per essere posto “in alto”. Spiega la Instructio “Sanctorum Mater”: «La fama deve essere spontanea e non artificiosamente procurata».[17]

–          diffusa in ampia e qualificata parte del popolo di Dio. Precisa la medesima Instructio: «Prima di decidere l’inizio della causa, il Vescovo […] dovrà verificare se, presso una significativa parte del popolo di Dio, il Servo di Dio goda di un’autentica e diffusa fama di santità […], unitamente ad una autentica e diffusa fama di segni».[18]

L’elemento quantitativo (tante persone, in molti luoghi e in fasi storiche diverse) si intreccia così a una componente qualitativa (persone autorevoli e sagge, nel popolo di Dio e soprattutto tra i suoi pastori).

La vera fama di santità presenta pertanto caratteristiche di: specificità; durata; dinamismo di perenne fioritura; autorevolezza, fondatezza, eccellenza.

Si comprende allora perché la Chiesa – nella sua prudenza – esiga si attendano 5 anni dalla morte del Servo di Dio per introdurre una Causa: intende verificare se si tratti di reale fama di santità, o si assista piuttosto a una manifestazione di emotività grata, destinata a stemperarsi fino a scomparire. La Chiesa esige anche che, trascorsi oltre 30 anni dalla morte del Servo di Dio, si giustifichi tale ritardo nell’introdurre la Causa: la fama deve sempre essere specifica, e comprovarne tale concretezza diventa arduo se i testi de visu sono nel frattempo mancati. Si perdono allora prove di determinante rilevanza, che risulterà impossibile sostituire con documentazione “altra”.

In altri termini, se una qualificata fama sussiste è normale che la Chiesa stessa la valuti da subito (anche a garanzia dei credenti!), a meno che particolari circostanza storiche – per esempio di persecuzione – non la ostacolino in tale proposito, custodito allora in attesa di un tempo più opportuno.

La vera fama, infatti, pur intercettando la sfera del consenso umano, non coincide tuttavia con una mera persuasione: ma è piuttosto quell’intimo convincimento che lo Spirito Santo stesso suscita nel cuore dei credenti, convincimento che è opera di Dio intrecciata alla libera risposta dell’uomo.

Solo un’opera di Dio – solo una ferma persuasione sorta nel cuore dei credenti per opera dello Spirito Santo – può superare, spesso con dinamiche del tutto incomprensibili alla mera logica umana, barriere di spazio, tempo, cultura e imporsi per la propria evidenza bella. Ed è solo alla luce di quanto detto, che si può comprendere come la fama di santità e di segni debba essere, appunto: sempre crescente (dotata cioè di un dinamismo intrinseco che non dipende dall’iniziativa di pochi, e sopravvive all’avvicendarsi delle generazioni) e diffusa in ampia e qualificata parte del popolo di Dio.

4. I santi come intercessori

Quando si è in presenza di una qualificata fama di santità e di segni, si impone alla Chiesa un’evidenza: alcuni credenti (fedeli morti in “odore di santità”, Servi o Serve di Dio, venerabili, beati…) continuano a essere vivi e operanti con il loro positivo influsso nella storia. C’è qualcosa di sempre attuale e convincente che persuade. Essi stessi, lungi dal restare interlocutori statici, entrano in dialogo con noi, sostenendo, incoraggiando, accompagnando.

È la grande realtà dell’intercessione che essi hanno già testimoniato in vita (spesso con segni e grazie, ma sempre con la concretezza del provvedere operoso a vantaggio dei fratelli, nel “fare” quotidiano).

Ora «intercedere» – dal latino “camminare in mezzo” – è il fondamentale atto di mediazione tra due realtà, compiuto da chi le conosce entrambe e opera per il loro bene, o per il bene dell’una presso l’altra: è l’atto dell’interporre se stessi, dell’avere a cuore, del farsi carico di una situazione. Di fatto: «intervenire presso qualcuno per ottenere qualcosa in favore di altri».[19]

“Intercessione” è anche quella preghiera «di domanda che ci conforma da vicino alla preghiera di Gesù. È lui l’unico intercessore presso il Padre in favore di tutti gli uomini, particolarmente dei peccatori».[20]

«Intercedere, chiedere in favore di un altro, dopo Abramo, è la prerogativa di un cuore in sintonia con la misericordia di Dio. Nel tempo della Chiesa, l’intercessione cristiana partecipa a quella di Cristo: è espressione della comunione dei santi.»[21] Essa si esprime come mediazione a vantaggio di altri, e disponibilità a impegnare la propria vita in questo.

L’intercessione è dunque fatta da una persona, presso Dio, a favore di un’altra (o altre), per il suo (o il loro) vero bene.

Essa trova il proprio fondamento nella comunione dei santi, per i quali i beni degli uni sono di tutti e la Chiesa purgante e trionfante intercede per la Chiesa militante, che da parte sua prega soprattutto per la Chiesa purgante e la Chiesa trionfante.

Scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica:

Dopo aver confessato «la santa Chiesa cattolica», il Simbolo degli Apostoli aggiunge «la comunione dei santi». Questo articolo è, per certi aspetti, una esplicitazione del precedente: «Che cosa è la Chiesa se non l’assemblea di tutti i santi?». La comunione dei santi è precisamente la Chiesa.[22]

«Poiché tutti i credenti formano un solo corpo, il bene degli uni è comunicato agli altri. […] Allo stesso modo bisogna credere che esista una comunione di beni nella Chiesa. Ma il membro più importante è Cristo, poiché è il Capo. […] Pertanto, il bene di Cristo è comunicato a tutte le membra; ciò avviene mediante i sacramenti della Chiesa». «L’unità dello Spirito, da cui la Chiesa è animata e retta, fa sì che tutto quanto essa possiede sia comune a tutti coloro che vi appartengono».[23]

Comunione anzitutto «nella fede», «dei sacramenti», «dei carismi» e di «ogni» altra «cosa» nella «carità»,[24] essa si estende anche alla «comunione della Chiesa del cielo e della terra»:

«Fino a che il Signore non verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui e, distrutta la morte, non gli saranno sottomesse tutte le cose, alcuni dei suoi discepoli sono pellegrini sulla terra, altri che sono passati da questa vita stanno purificandosi, altri infine godono della gloria contemplando “chiaramente Dio uno e trino, qual è”». […] «L’unione quindi di coloro che sono in cammino coi fratelli morti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali».[25]

In particolare, l’intercessione dei santi li fa sentire vicini nella prossimità di un aiuto sollecito:

«A causa infatti della loro più intima unione con Cristo, i beati rinsaldano tutta la Chiesa nella santità […]. Non cessano di intercedere per noi presso il Padre, offrendo i meriti acquistati in terra mediante Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini. […] La nostra debolezza quindi è molto aiutata dalla loro fraterna sollecitudine».[26]

La comunione dei santi meravigliosamente descrive la realtà cui ciascuno è chiamato e aiuta a contemplare, nella Chiesa trionfante, la pienezza di ciò che la Chiesa militante già sperimenta, come in nuce, nel suo cammino verso la visione beatifica:

«Non veneriamo la memoria dei santi solo a titolo d’esempio, ma più ancora perché l’unione di tutta la Chiesa nello Spirito sia consolidata dall’esercizio della fraterna carità. Poiché come la cristiana comunione tra coloro che sono in cammino ci porta più vicino a Cristo, così la comunione con i santi ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso popolo di Dio».[27]

Precisa la Lumen Gentium:

«Che gli apostoli e i martiri di Cristo, i quali con l’effusione del loro sangue diedero la suprema testimonianza della fede e della carità, siano con noi strettamente uniti in Cristo, la Chiesa lo ha sempre creduto; li ha venerati con particolare affetto insieme con la beata vergine Maria e i santi angeli e ha piamente implorato il soccorso della loro intercessione. A questi in breve se ne aggiunsero anche altri, che avevano più da vicino imitato la verginità e la povertà di Cristo e infine altri, il cui singolare esercizio delle virtù cristiane e le grazie insigni di Dio raccomandavano alla pia devozione e imitazione dei fedeli.

Il contemplare infatti la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr. Eb 13,14 e 11,10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità. Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr. Eb 12,1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati».[28]

Si tratta di quello stupore di meraviglia, bellezza e aiuto reciproco – che i santi stessi hanno sperimentato tra loro e di cui rendono ora partecipi noi – chiamato da Padre Léthel ocd, con felice espressione, il «girotondo dei santi».[29]

5. Tra “mediazione orante” e “mediazione esistenziale”.

A) L’intercessione come preghiera.

Esiste così una prima e fondamentale modalità di intercessione definibile, in senso stretto, “mediazione orante”: essa consiste nel gesto con cui un “santo” presenta, con e per noi, la preghiera che innalziamo a Dio, sollecitati da personali necessità o per il bene dei fratelli: la fa propria, la assume su di sé. Tale preghiera ha come causa una richiesta (più o meno esplicita) di aiuto e come fine il suo essere accolta da Dio, sollecitandolo a intervenire. Tale dinamismo, evidente nelle preghiere autorizzate per la devozione privata, e ancor più in contesto liturgico, pone in relazione l’uomo a Dio, per il tramite di una figura ritenuta potente presso di Lui.

Un buon esempio è rappresentato dalla preghiera per Nino Baglieri, rivolta a Dioricordando Nino e interponendolo mediatore nell’intercessione:

Adoriamo te nel tuo mistero Dio-amore
guida le nostre anime Padre pastore
custodisci la nostra vita Figlio redentore,
Spirito Santo
, roveto ardente,

infiamma il nostro cuore.
Lodiamo te per l’epifania del tuo amore
nel tuo discepolo diletto Nino Baglieri
che sull’esempio di don Bosco
prese la tua croce su di sé
amò Gesù Eucaristia, Maria SS. Ausiliatrice e la Chiesa facendosi vittima e offerta come te.
Benediciamo te
 per la via dell’amore
che spinse a tanto dono Nino Baglieri:
consacrato nel mondo, nella Famiglia Salesiana,
testimoniò la gioia di Cristo a tutti
ai giovani e ai sofferenti,

perché la nostra vita diventasse più umana.
Ringraziamo te
 per la fecondità dell’amore
nelle opere grandi della carità
che tu stesso hai compiuto in Nino Baglieri
a gloria del tuo nome, a nostro favore,
per essere oggi cristiani più veri
mentre ti chiediamo in tutta umiltà:
sia riconosciuto dalla Chiesa
quale testimone esemplare di santità.
Concedici, per sua intercessione,
la grazia che imploriamo…
in particolare la nostra conversione
per aderire con fede alla tua verità
non permettere mai che ci stanchiamo
di fare sempre la tua volontà.

Amen.

Anche la Colletta per chiedere la canonizzazione del beato don Titus Zeman martire riprende i medesimi elementi, strutturati ora intorno al ricordo orante della libera risposta di Titus alla Grazia di Dio e alla richiesta di essere attratti noi stessi in questo stesso dinamismo:

O Dio onnipotente,
tu hai chiamato don Titus Zeman a seguire il carisma di san Giovanni Bosco. 
Sotto la protezione di Maria Ausiliatrice 
egli divenne sacerdote ed educatore della gioventù. Visse secondo i tuoi comandamenti
e tra la gente fu conosciuto e stimato 
per il carattere affabile e la disponibilità per tutti. 
Quando i nemici della Chiesa soppressero i diritti umani e la libertà della fede, 
don Titus non si perse di coraggio e perseverò nella strada della verità. 
Per la sua fedeltà alla vocazione salesiana 
e per il suo servizio generoso alla Chiesa fu incarcerato e torturato. 
Con audacia resistette ai torturatori e per questo fu umiliato e deriso.

Tutto soffrì per amore e con amore.
Ti supplichiamo, o Padre onnipotente
, fa’ che il Beato Tito sia iscritto nel numero dei tuoi santi 
e per sua intercessione concedi a noi la grazia che con fede ti chiediamo.
Per Cristo nostro Signore.

Amen.

Che si tratti di preghiere ufficiali e approvate dalla Chiesa – come in questi casi – o di preghiere semplici dettate dal cuore e formulate in modo spontaneo (come accade in casi di pericolo imminente ma anche di devozione feriale, abituale, a un “santo”); che si preghi da soli o insieme; che si ricorra alla Novena o si preghi con i gesti (apposizione di una reliquia sul malato, ecc.), sempre si prega Dio rivolgendosi però a un “amico”, avvertito contemporaneamente vicino a noi e presso di Lui. Si parla allora dell’intercessione in senso stretto.

Ai fini del riconoscimento del miracolo, serve poter comprovare tale intercessione come: esplicita e univoca (si deve poter dimostrare chi si è pregato), efficace (è concomitante al viraggio favorevole di una malattia, cui consegue uno stato di salute che si protrae nel tempo; ecc.).

Qui, i “santi” intercedono per noi assumendo una nostra richiesta e presentandola a Dio.

Essi fanno proprio quel dinamismo che è di Gesù quando – nei racconti di guarigione riportati dal Vangelo – è contemporaneamente commosso per la sofferenza che incontra e in dialogo con il Padre “che sempre gli dà ascolto” (cf. Gv 11, 42); quel dinamismo che è di Maria quando – alle nozze di Cana – “si accorge che non hanno più vino” e chiede al Figlio di intervenire, a noi di obbedire (cf. Gv 2,3; 2,5). “Intercessione” è pertanto l’intreccio tra una prossimità contemporaneamente “orizzontale” – all’uomo e alle sue urgenze – e “verticale” – al Padre e alla Sua onnipotenza –.

Non c’è uno schema fisso, per pregare. Si evidenzia comunque come la preghiera a un “santo” possa essere rivolta da credenti; oppure da persone piuttosto lontane dalla fede; o addirittura da non credenti (come è accaduto per Padre Vandor a Cuba). Anche tra i sanati, sempre si riscontra quella molteplicità di situazioni che fanno parte del cammino dell’uomo nella storia: persone più o meno vicine alla fede, ma sempre toccate nella totalità della loro vita, perché il miracolo è un segno tangibile della benedizione di Dio che investe il cuore non meno del corpo, sana l’esteriorità, guarendo intanto l’interiorità e favorendo una riscoperta della vita, della bellezza delle relazioni, dell’essere-grati (cioè “eucaristici”). La storia delle Cause attesta, in tal senso, una varietà amplissima di situazioni che coinvolgono tanto il sanato, quanto chi sollecita la preghiera per lui: segno che presso il cuore di Dio si stemperano o cadono molte barriere innalzate dall’uomo. Intanto, ricorrere all’intercessione dei santi rende noi stessi intercessori per i fratelli e presso di loro.

Prevalgono, tuttavia, tre aspetti:

–          L’importanza della preghiera comunitaria e ripetuta, di un “bussare” insistente e fiducioso: alcune grazie segnalate negli ultimi anni (il miracolo per la beatificazione di Madre Maria Troncatti; una asserita guarigione attribuita all’intercessione di don Giuseppe Quadrio; l’asserita guarigione della piccola Laura invocando don Titus Zeman) sono avvenute attraverso lo strumento della novena;

–          Il riferimento alla Vergine come mediatrice di tutte le grazie, da invocarsi “con” il Servo di Dio, il venerabile o il beato. Questo accade per le tante grazie attribuite per esempio all’intercessione di Madre Antonietta Böhm, ma suggerisce anche un profilo di possibile promozione delle Cause in quei contesti salesiani dove la storia di quel “santo” e la devozione mariana sono strettamente intrecciate. Titus Zeman è legato al santuario di Šaštin, così importante per la sua vita. Don Stuchlý confessava nei santuari mariani della Repubblica Ceca (dove egli stesso era stato un tempo pellegrino) e a Ljubljana-Rakovinik si è sacrificato oltre ogni limite perché fosse completato il Santuario di Maria Ausiliatrice. Molte altre Cause sono attive presso Ispettorie o Centri che possono avvantaggiarsi della significativa presenza di opere salesiane dedicate all’Ausiliatrice: alcune Cause a Torino; quella di don Carlo Braga nelle Filippine; ecc.

–          È sempre possibile ravvisare un qualche parallelismo tra le caratteristiche precipue di un “santo” e le grazie che concede. C’è, così, come un’affinità tra la sua vita terrena e la “seconda vita”, quella in Cielo. A Titus Zeman si attribuiscono guarigioni connesse soprattutto a patologie di cui egli stesso soffrì in seguito alle torture: cuore, polmoni, ossa, sistema uditivo. Ignác Stuchlý, che ha vissuto una difficile vecchiaia, lontano dai confratelli e nell’esilio della solitudine, aiuta alcuni anziani. Gianna Beretta Molla ha guarito alcuni bimbi. E la stessa cosa va detta di Louis e Zelia Martin, genitori di santa Teresina di Lisieux, che avevano perso 4 figli. All’intercessione di Paolo VI – il pontefice dell’Humanae vitae – sono collegati miracoli a difesa della vita. Elisabetta della Trinità, carmelitana scalza canonizzata nel 2016, esaudisce l’invocazione – che si era protratta per alcuni anni da parte della futura sanata – solo quando ella compie (credendosi ormai prossima alla morte) un atto di perfetto abbandono alla volontà di Dio (ed Elisabetta insisteva ampiamente su questo punto della docilità amorosa alla volontà di Dio); ecc.

In tali casi il dinamismo è duplice: pregano un “santo” soprattutto le persone che lo sentono vicino. D’altra parte il “santo” stesso, pur assumendo ogni richiesta gli venga presentata, mantiene per così dire un profilo di coerenza tra la struttura del suo vissuto storico, la particolare missione che Dio gli ha affidato e alcuni esaudimenti per sua intercessione. Che poi, a puro titolo di esempio, il miracolo per la canonizzazione dei coniugi Martin sia intervenuto con tempismo perfetto per il Sinodo sulla famiglia, e quello per la canonizzazione di Paolo VI nel cinquantesimo dell’Humanae vitae, aiuta a valorizzare ciò che nella Chiesa non è mero gesto politico, ma anzitutto capacità di valorizzare alcuni “segni” forti, che le sono donati da Dio per il bene di tutti.

B) L’intercessione nel suo nesso all’esemplarità.

Sussiste tuttavia un secondo aspetto dell’intercessione. Si tratta allora di un’opera “mediatrice” in senso lato (connessa alla fama di santità più che alla fama di segni e, nell’ambito della fama di segni, alle grazie di conversione e guarigione morale piuttosto che alle grazie di guarigione fisica).

In tal caso, il “santo” “media” aiutando, con l’esempio della sua stessa vita, ad avvicinarsi o riavvicinarsi a Dio; a sentirlo Padre; a pregarlo con fiducia di figli. La si potrebbe chiamare “mediazione esistenziale”, consistente nel fatto che la vita stessa di queste “figure” diventa significativa per la Chiesa ed esplica effetti difficilmente riducibili alla pur fondamentale “mediazione orante” esplicita.

Edith Stein si converte leggendo la vita di Teresa d’Avila. Teresa d’Avila aveva ricevuto uno sprone alla definitiva conversione leggendo le Confessioni di Agostino. Agostino aveva iniziato a cambiare ascoltando Ambrogio. Sant’Antonio da Padova, allora Agostiniano, sceglieva di diventare Francescano grazie all’esempio dei martiri francescani in Marocco… Per rimanere in ambito salesiano: don Bosco scrive le Vite dei giovani (strutturandole come esplicito commento alla loro fama di santità e di segni) per attrarne molti altri al bene. Ignác Stuchlý, vocazione adulta, si forma alla vita salesiana godendo della confidenza del beato don Michele Rua e degli incontri con il venerabile Andrea Beltrami, ma anche attingendo alla viva fama del beato August Czartoryski, morto alcuni anni prima. Il beato Giorgio Frassati è modello di tanta santità laicale fiorita nei giovani del Novecento tra cui il beato Alberto Marvelli, che aveva fatto sia di lui sia di Domenico Savio un punto di riferimento. La storia delle missioni salesiane in India attesta la presenza di grandi missionari, tra cui spiccano i Venerabili Mons. Stefano Ferrando e don Francesco Convertini e i Servi di Dio Mons. Oreste Marengo e don Costantino Vendrame: la santità degli uni sarebbe inconcepibile senza quella degli altri, perché essi hanno lavorato insieme, si sono incontrati e aiutati in momenti decisivi delle loro vite e oggi rimangono un riferimento importante per la Congregazione Salesiana.

Sempre, così, il santo mostra la potenza del Vangelo vissuto “alla lettera”: non come ideale da vivere, ma come incontro che cambia la vita.

In casi come questi, ricorrere all’intercessione dei “santi” (siano essi ancora in vita, o incamminati verso gli onori degli altari) – prima e più che affidarsi a loro nella preghiera, perché la presentino al Padre – significa conoscerli, imitarli, lasciarsi attrarre dal dinamismo virtuoso che li ha forgiati. Significa trarne incoraggiamento per esercitare le virtù, dare una coraggiosa testimonianza di fede, donare la vita.

Così, la conoscenza delle loro vite sollecita l’imitazione – questo addentrarsi nel loro dinamismo di amore a Cristo e servizio alla Chiesa, là dove ognuno è chiamato, in base ai carismi donati a ciascuno per il bene di tutti –. L’imitazione poi accresce la confidenza, da cui la preghiera propriamente detta può sgorgare spontanea, sincera e bella.

In tal senso, come afferma il Carmelitano Padre Bruno Secondin in un suo recente intervento:

parlando di testimone, ci viene in mente subito chi porta prove, dimostra, è affidabile, attesta; e non altera la verità, esibendo se stesso. È privo di ansia di protagonismo […]. Il vero testimone parla da se stesso, non per se stesso: egli dovrebbe soffrire la realtà che dice, portarne fatica e peso […]. Non è centrato, come il testimonial, sulla forza comunicativa […] Qui sta la differenza sostanziale con il testimonial: questo “si presta” a rappresentare un’esigenza, una soddisfazione, un risultato appagante, una delusione, un desiderio. […]. Il testimone è plasmato e trasfigurato da qualcosa di più intimo, profondo, vitale: il suo messaggio è anche la ragione, la forza, la fatica della sua vita.[30]

Testimoni autentici, così, i santi, mentre «contemplano Dio e lo lodano»,[31] «non cessano di prendersi cura di coloro che hanno lasciato sulla terra. Entrando nella gioia del loro Signore… sono stati stabiliti su molto. La loro intercessione è il più alto esercizio che rendono al disegno di Dio», sì che «possiamo e dobbiamo pregarli di intercedere per noi e per il mondo intero»[32]. Al tempo stesso, essi «partecipano alla tradizione vivente della preghiera, mediante l’esempio della loro vita, la trasmissione dei loro scritti e la loro attuale preghiera».[33]

6. Spunti di riflessione per le nostre Cause.

A) La fama non è mai procurata “ad arte”. Cause facili e difficili da animare.

Alla luce di quanto detto, risulta anzitutto evidente come la fama di santità – essenziale opera dello Spirito nel cuore dei credenti – si intrecci alla libertà dell’uomo: ma tuttavia non dipenda da essa sola.

È evidente come ci siano Cause facili da animare e Cause la cui animazione esige un rinnovato cammino di Chiesa.

Penso, in tal senso, alla meravigliosa fioritura di preghiera accaduta intorno alla figura di Titus Zeman già pregata, nel 2013-2014, da un migliaio di persone contemporaneamente, quando c’era da intercedere per alcune guarigioni, tra cui casi medici importanti, poi segnalati alla Postulazione. Penso, però, anche alla fatica incontrata dalla Causa di don Ignác Stuchlý nella Repubblica Ceca, dove la splendida figura di questo Servo di Dio fa come un po’ di fatica a fuoriuscire dal contesto solo salesiano e trova ostacolo soprattutto nella bassa presenza di cattolici in quelle terre.

Si verificano qui alcuni casi, tra loro diversi, che rappresentano tipi diversi di fatica nell’animare una Causa:

–          Ci può essere una fatica dovuta alle particolari condizioni storiche entro cui la vicenda di una Causa si snoda. Come è accaduto per alcune nostre Cause della seconda metà del Novecento, e accade oggi con Matilde Salem in Siria, si danno condizioni storiche in cui la fama di un Servo o Serva di Dio sì persiste, ma trova difficoltà a essere testimoniata e documentata con prove. Le vicende storiche determinano allora un danno oggettivo all’iter processuale – pur se la memoria del Servo di Dio resta viva e viene custodita con amore. Penso ancora una volta a don Stuchlý, per il quale l’allora ispettore ceco don Ladislav Vik approntava un’informale – ed eroica – indagine “perché non si perdessero le prove”, ancora sotto il comunismo, indagine utilizzata nel 2017-2018 per completare la Positio.

–          Ci possono essere Cause in cui, pur persistendo questa fama, essa tuttavia va accompagnata rispetto a sensibilità nuove. Tale fama, in altri termini, si intreccia a una rilevanza ecclesiale che non è mai statica, ma sempre dinamica e accompagna la Chiesa nelle sue diverse stagioni, attestando l’inesauribile novità dei santi. È un dinamismo che esige lo sforzo di essere ascoltato e interpretato, in dialogo con il presente, aiutando così un “santo” ad esprimere quella totalità del suo messaggio che in un primo tempo potrebbe essere sfuggita.

Penso qui ad Attilio Giordani, splendida figura di laico, sposo, padre di famiglia, che nei decenni scorsi pareva emergere soprattutto per la sua prassi oratoriana e la morte in missione, ma avrebbe oggi molto da dire soprattutto rispetto alle tematiche del matrimonio e della famiglia, alla luce dell’Esortazione Apostolica Post-Sinodale Amoris Laetitia”.

Penso a una persona come Octavio Ortiz Arietta Coya, figura di vescovo al tempo forse poco compreso, e intuito in diocesi più che dai Salesiani, oggi particolarmente esemplare alla luce dei costanti moniti di Papa Francesco sull’umiltà nel servire e la disponibilità ad addentrarsi nelle periferie esistenziali.

Penso anche a Padre Carlo Crespi Croci, lombardo missionario in Ecuador, genio di organizzazione e inventiva che vive una infanzia spirituale del tutto aliena dal primato scomposto della sola azione; che è antesignano, ben prima del Vaticano II, dell’inculturazione del Vangelo; che sviluppa – lui scienziato, naturalista – una viva sensibilità su temi ambientali per certi aspetti affini alle tematiche affrontate nella Laudato si’.

Penso a Francesco Convertini, persona umile e povera che non brillava per doni di natura, ma molto per doni di Grazia, divenuto in India un apostolo capace di annunciare con ineccepibile integralità il Vangelo, venendo al tempo stesso accolto come vero “padre” da musulmani e indù.

Penso infine a Elia Comini, Salesiano sacerdote ucciso dai nazisti in un contesto di ritorsione, dopo aver assistito i condannati a morte con gli ultimi sacramenti ed essere rimasto loro solidale fino alla fine: esempio oggi per quanti lottano a difesa della giustizia, non si piegano alla legge del più forte e pagano la solidarietà agli ultimi con la vita.

Alcune volte, un’Ispettoria possiede veri e propri tesori, da riscoprire e valorizzare. Può essere che il vero “tempo” di alcuni santi sia il presente.

Si possono, d’altra parte, presentare Cause prive di elementi strutturali. Negli ultimi anni, la Postulazione Salesiana (talvolta sollecitata a fornire anche consulenze esterne) si è confrontata con processi in cui i requisiti della santità canonizzabile erano deboli o assenti (e, allora, una Causa è stata bloccata; di altre la Postulazione ha scoraggiato l’apertura o sta optando per un più lungo percorso di discernimento). Cause in cui le virtù, alla prova dei fatti, siano del tutto ordinarie e non eroiche; dove alcune virtù evidentemente manchino; o dove la fama di santità e segni sia carente e rischi di venire equivocata con benemerenze ecclesiali, sociali, culturali, sono tutte Cause che necessitano di alcune parole di verità e – se necessario – di un coraggioso “passo indietro”.

B) Nessuna Causa è solo “nostra”: dalla lettura salesiana alla lettura ecclesiale.

Di tutte le Cause che proseguono con successo verso gli onori degli altari occorre precisare, d’altra parte, che non sono “nostre” o “solo nostre”: ma anzitutto della Chiesa. Un Servo o una Serva di Dio non appartengono a nessuno: sono per tutti, perché sono di Cristo e della Chiesa.

Lo stesso arcivescovo di Olomouc Jan Grauber, nel febbraio 2018, accompagnava le ultime tappe della Positio di Ignác Stuchlý con una intensa lettera al Postulatore Generale SDB in cui, se da una parte rilevava la piena attualità ecclesiale di don Stuchlý, dall’altra suggeriva ai Salesiani boemi di aiutare l’arcidiocesi nell’animare la Causa.

Analoga fatica nell’impegno è stata del resto svolta dai Salesiani slovacchi prima della beatificazione di don Titus Zeman, a Bratislava nel settembre 2017. Qui, alla buona riuscita dell’evento ha senz’altro concorso l’appoggio dell’arcivescovo e il pieno coinvolgimento dell’arcidiocesi, con la partecipazione di persone del tutto estranee alla realtà salesiana sia alla veglia di preghiera, sia alla cerimonia di beatificazione e alla Messa di ringraziamento.

Sempre occorre chiedersi: cosa dice alla Chiesa questa figura? Accadrà allora di scoprire che Cause di per sé già dotate di una propria legittimità in seno alla Famiglia Salesiana acquistano un rilievo e una ricchezza impensate quando le si rapportino alla Chiesa tutta: alle sue aspettative, ai suoi bisogni, alla sua saggezza nel leggere l’opera di Dio in quella vita.

In tal senso, è importante precisare la differenza tra beatificazione e canonizzazione.

Beatificazione e canonizzazione sono qualcosa in più di due mere tappe in successione.

Con la beatificazione il Sommo Pontefice concede il culto locale di un Venerabile Servo di Dio.

Con la canonizzazione il Sommo Pontefice, in virtù di un atto di infallibilità, prescrive il culto universale di un beato, asserendo altresì che gode della visione beatifica di Dio nel Paradiso.

C’è dunque come un intrinseco legame tra la qualità e l’estensione della fama, il modo in cui si anima una Causa e il suo esito.

Qui alcuni interrogativi sorgono spontanei: siamo pienamente coscienti che ogni Causa si conclude con la canonizzazione e le sue implicazioni, ovvero il culto universale di un beato?

Riteniamo davvero, con intimo convincimento, che tutte le figure di cui si chiede di introdurre una Causa possano godere di una certa rilevanza presso la Chiesa universale? O alcune volte non ci si limita piuttosto a sottoporre alla Chiesa qualcosa che serve a noi, con scarsa coscienza dei presupposti e delle conseguenze che ciò implica?

È significativo, a tal proposito, come alcune Cause salesiane siano strutturate intorno all’espressione: “Il don Bosco…”. Per esempio: “il don Bosco boemo” (Ignác Stuchlý); “il don Bosco del Vietnam” (Andrej Majcen). Meraviglioso, ma attenzione che, impostando così una Causa sin dall’inizio, essa strutturalmente non mira alla canonizzazione, perché manca di quell’afflato universale che è proprio del santo canonizzato. Tale Causa è, per così dire, impostata per raggiungere la beatificazione quale suo traguardo ultimo. Che a molti nostri Servi di Dio o beati manchino miracoli utili all’avanzamento della Causa, è forse legato anche a questo intrinseco localismo di certe Cause e del nostro modo di intenderle.

Soprattutto – come accennato – nessuna Causa trattata dinanzi alle sedi competenti dalla Postulazione Salesiana è, ecclesialmente parlando, dei Salesiani: è della Chiesa e per la Chiesa, attraverso la mediazione salesiana. In caso contrario, si ridurrebbe a un rischioso meccanismo di autoesaltazione e autopromozione che, se può forse attirare l’attenzione, tende poi a ingenerare dinamiche autoreferenziali: esse determinano, stemperatosi l’entusiasmo iniziale, la rapida perdita di interesse, la drastica diminuzione della preghiera di intercessione e la conseguente mancanza di una qualificata fama di segni, pur in presenza di figure del tutto meritevoli.

C) Il “tempismo” delle Cause.

Non basta, tuttavia, limitarsi ad accompagnare una Causa: occorre, con docilità allo Spirito e in obbedienza alla Chiesa, assecondarne i tempi.

Ciò avviene, essenzialmente: evitando di farla attendere, se vi sono chiari segni della sua urgenza (fama di segni; particolare attualità ecclesiale rispetto a specifiche tematiche, approfondite dal magistero dei pontefici); avendo il coraggio d’altra parte di lasciarla decantare, qualora attesti aspetti problematici che esigono di essere chiariti (sempre sottoponendoli al vaglio dell’obbedienza alla Chiesa).

Molto dipende da noi: è un richiamo alla responsabilità e all’azione.

Ma non tutto dipende da noi: è un invito alla libertà, intesa sia come necessaria povertà interiore rispetto alle Cause che animiamo, sia come disponibilità ad assecondare il ritmo loro e non nostro, la verità dei fatti e mai aspettative proprie.

Alcuni esempi, tratti dalla Postulazione Salesiana, possono aiutare a comprendere quale sia questo dinamismo contemporaneamente di legame e distacco dalle Cause.

La Causa di don Titus Zeman – martire per le vocazioni – ha mosso i primi passi nel 2010, ha attraversato l’anno della fede, l’anno speciale della vita sacerdotale, quello della vita consacrata ed è pervenuta al traguardo della beatificazione nei momenti in cui si cominciava a lavorare sul Sinodo speciale sui giovani, la fede e le vocazioni.

La Causa di don Stuchlý, Salesiano che ha accompagnato oltre 200 vocazioni e ha vissuto egli stesso una delicata e sofferta fase di discernimento, dopo alterne e complesse vicende approda alla consegna della Positio a pochi mesi dall’inizio di questo Sinodo speciale.

La Causa di martirio di Padre Rodolfo e Simão, dopo precedenti richieste dal Brasile di poterla introdurre, muove ora i suoi primi passi in un momento in cui la Chiesa riflette sul dono della vita, in tutte le sue possibili forme, e si insiste sulla dignità umana all’inizio e alla fine della vita – temi, tutti, strettamente connessi all’attività missionaria di Padre Rodolfo presso il popolo Bororo, che si era ormai votato all’auto-estinzione e chiuso alla vita, ma ritrova la speranza grazie al sacrificio di questo missionario salesiano.

Il “segno forte” ottenuto nelle Filippine è avvenuto per intercessione del beato Artemide Zatti, caro a Papa Francesco che si era affidato al lui perché tra i Gesuiti fiorissero nuove vocazioni di fratelli (non presbiteri).

D’altra parte, è evidente che alcune tra le Cause accompagnate fatichino, vadano meglio animate, presentino ostacoli o segnalino criticità. Tali criticità obbligano a riformulare le aspettative e, spesso, a cominciare a rianimare una Causa anzitutto sanando il contesto, anche relazionale, dei gruppi che la promuovono. Una buona Causa, infatti, per crescere necessita che crescano tutti coloro che la accompagnano; che ricerchino solo la verità; che collaborino nell’unità.

Se poi la Chiesa si esprimesse con parere negativo, occorrerà ricordare che tutti hanno diritto a chiedere l’Introduzione di una Causa, ma nessuno ha diritto a una risposta affermativa. La stessa struttura della Positio ruota infatti intorno alla domanda an constet, espressa in forma dubitativa e – come tale – aperta a ogni possibile esito.

D) Rivolgersi all’intercessione dei santi ci rende intercessori per i fratelli.

Quali siano le specificità dei singoli processi, accompagnare una Causa vuol dire trattarla presso le sedi competenti, e animarla nel popolo di Dio, assumendo noi stessi una responsabilità di mediazione (“postulare” dopotutto vuol dire “chiedere”!) e la prontezza a intercedere per i fratelli.

Le attese, le speranze, i desideri e le preoccupazioni che accompagnano ogni Causa – strumento attraverso cui qualcosa di nuovo nasce, e nasce per sempre – portano molti a far proprio il medesimo meccanismo di intercessione contemplato nei santi: stare nel proprio tempo; coglierne i segnali di bene e di bellezza; assumere la sofferenza e l’angoscia di tanti; pregare e chiedere di pregare per i fratelli in difficoltà.

Come afferma la Costituzione dogmatica “Gaudium et Spes”,

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.

La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti.

Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.[34]

Così, guardare ai santi educa noi a crescere nell’intercessione per i fratelli e perfeziona il mutuo vincolo nella carità:

Non veneriamo però la memoria degli abitanti del cielo solo per il loro esempio, ma più ancora perché l’unione della Chiesa nello Spirito sia consolidata dall’esercizio della fraterna carità (cfr. Ef 4,1-6). Poiché, come la cristiana comunione tra i cristiani della terra ci porta più vicino a Cristo, così la comunità con i santi ci congiunge a lui, dal quale, come dalla loro fonte e dal loro capo, promana ogni grazia e la vita dello stesso popolo di Dio. È quindi sommamente giusto che amiamo questi amici e coeredi di Gesù Cristo, che sono anche nostri fratelli e insigni benefattori, e che per essi rendiamo le dovute grazie a Dio, «rivolgiamo loro supplici invocazioni e ricorriamo alle loro preghiere e al loro potente aiuto per impetrare grazie da Dio mediante il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro, il quale solo è il nostro Redentore e Salvatore». Infatti ogni nostra vera attestazione di amore fatta ai santi, per sua natura tende e termina a Cristo, che è «la corona di tutti i santi» e per lui a Dio, che è mirabile nei suoi santi e in essi è glorificato.

La nostra unione poi con la Chiesa celeste si attua in maniera nobilissima, poiché specialmente nella sacra liturgia, nella quale la virtù dello Spirito Santo agisce su di noi mediante i segni sacramentali, in fraterna esultanza cantiamo le lodi della divina Maestà tutti, di ogni tribù e lingua, di ogni popolo e nazione, riscattati col sangue di Cristo (cfr. Ap 5,9) e radunati in un’unica Chiesa, con un unico canto di lode glorifichiamo Dio uno in tre Persone Perciò quando celebriamo il sacrificio eucaristico, ci uniamo in sommo grado al culto della Chiesa celeste, comunicando con essa e venerando la memoria soprattutto della gloriosa sempre vergine Maria, del beato Giuseppe, dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi.[35]

Una Causa, nei suoi differenti aspetti di studio, ascolto, mediazione e soprattutto ricorso all’intercessione dei “santi”, comporta sapersi assumere il peso, il significato e le aspettative degli uomini e delle donne del nostro tempo, alla ricerca di risposte alle loro domande: i santi per primi sono anzitutto questo, incarnando nella loro vita tutte le urgenze dei contemporanei e incarnando la risposta di Dio ad esse.

Quegli stessi “santi” infine cui chiediamo di aiutarci dal cielo, e dei quali abbiamo bisogno, hanno essi stessi bisogno di noi, perché la santità loro non può essere riconosciuta senza l’aiuto nostro: rivolgersi a loro e poterne comprovare l’intercessione diventa determinante perché salgano alla gloria degli altari. Servono infatti miracoli accertati, attribuiti alla loro mediazione intercessoria.

E) Maria, mediatrice di tutte le grazie, maestra di preghiera.

A conclusione di questa condivisione sulla rilevanza ecclesiale delle Cause e i santi come intercessori, non si può che ricordare Maria «avvocata nostra», «mediatrice di tutte le grazie». Lei stessa – a partire dal sogno dei nove anni di Giovanni Bosco – segue e accompagna con particolare premura la realtà salesiana, e ha direttamente influito sulla vocazione di alcuni suoi membri santi e il compimento della loro esistenza terrena. Titus Zeman, guarito a dieci anni per intercessione della Vergine Maria, si decise in quel frangente a divenire Salesiano. Ignác Stuchlý desiderò, a oltre vent’anni, diventare sacerdote dopo avere ascoltato un presbitero intonare il canto della Salve Regina. Francesco Convertini muore dicendo a Maria: “Madre, non ti ho mai dispiaciuto, ora aiutami tu!”. La vita di Antonietta Böhm è stata tutta un inno alla Vergine, che sensibilmente interviene anche nelle grazie per cui Madre Böhm pregava.

La più bella preghiera di intercessione, per chi voglia bene a questa Madre, non può dunque che rivolgersi a lei, attirando nel dinamismo di questo dialogo i Servi o le Serve di Dio, i venerabili e i beati che – ancora in cammino verso gli altari – chiedono l’aiuto di una grazia che permetta alla Chiesa di riconoscerne la santità.

Valgono, del resto, a vantaggio dei nostri “santi”, e sono processualmente finalizzabili, le grazie ottenute da Dio interponendo la mediazione intercessoria di Maria Santissima con la loro.

Lodovica Maria Zanet

Collaboratrice della Postulazione Generale SDB (lzanet@sdb.org)