Uscire verso le periferie per donare ciò che sei. La santità come missione

Francesc Torralba.

A mo’ di prologo

Prima di tutto, desidero ringraziare il Rettor Maggiore per l’invito a prender parte attivamente in questo evento salesiano. Per ragioni familiari, nutro una grande stima per l’opera di Don Bosco. I miei cinque figli si sono formati in un centro educativo salesiano nella città di Barcellona e uno di loro, un figlio adottato, Valentín, con esigenze educative particolari, è stato seguito con molta cura dai suoi educatori sociali che hanno contribuito enormemente alla sua crescita integrale.

Gratitudine, dunque, è la prima parola che esce dalle mie labbra.

Ringrazio inoltre per la possibilità di visitare, nuovamente, la città di Torino, che ha un gran valore simbolico per tutta la comunità salesiana, giacché qui è il luogo in cui Don Bosco ha iniziato la sua attività educativa ed apostolica con i giovani delle periferie. Ho visitato in due occasioni la città partecipando al Congresso Torino Spiritualità; per finire, questa città attira la mia attenzione, in modo particolare, per le sue librerie.

Il tema che mi invitano ad esporre è molto bello. Desidero presentarlo alla luce del Magistero di Papa Francesco. Ho l’onore di essere un consultore del Pontificio Consiglio della Cultura e seguo con attenzione lo sviluppo del suo magistero nel mondo.

Il pensiero di Papa Francesco sulla santità è un pensiero vivo e dinamico, per il quale qualsiasi descrizione dello stesso deve essere interpretata in chiave temporale. Nonostante ciò, esistono alcune linee forza che configurano la sua forma mentis e che nutrono il suo pensiero presente e, molto probabilmente, futuro. Nessuno può anticipare il pensiero di un essere umano, tantomeno pretendo di farlo io in quest’opera, però è mia intenzione identificare alcuni elementi costanti, i pilastri che sostengono la sua intelligente intuizione e le sue espressioni sociali ed ecclesiali.

Papa Francesco formula i suoi messaggi con un linguaggio chiaro e diretto, è capace di farsi comprendere da persone di condizioni molto diverse. È ascoltato e stimato da un gran numero di fedeli e, col suo discorso, risveglia anche l’interesse tra i ‘non credenti’, proprio per questa abilità di comunicarsi in modo chiaro e diretto.

La sua volontà di arrivare ai ‘non iniziati’, di uscire dalla propria comunità per avvicinarsi a quelli che si trovano oltre della stessa, si manifesta con chiarezza nei suoi discorsi. La sua pretesa è aggiungere ed integrare e, nel migliore dei casi, creare ponti di dialogo con quanti non partecipano alla stessa cosmovisione né scelta di vita. Questo è quanto ci si aspetta da un Pontefice, che tenda ponti e riunisca ed accolga diverse sensibilità.

Centrerò la mia esposizione in tre idee chiavi a riguardo della chiamata alla santità: il valore del dono di sé, il bisogno di uscire da se stessi e l’imperativo di arrivare alle periferie del mondo. Gran parte di queste idee hanno come spunto principale di ispirazione l’Esortazione apostolica Gaudete et Exsultate. Sulla chiamata alla santità nel mondo attuale di Papa Francesco.

  1. Il dono di sé: cammino di santità

Il dono di sé è la vera strada della santità. Il processo del dono di sé esige il superamento di una catena di barriere invisibili. Non si presenta come un itinerario facile, al contrario, come una salita. Nonostante che la teleologia del dono è iscritta in ogni ente, dal più infimo al più complesso della scala degli esseri, l’essere umano si confronta con una serie di difficoltà per liberare il dono.

La via del dono di sé che qui proponiamo si scontra, frontalmente, con le proposte che si impongono nell’immaginario collettivo, nel quale la felicità si concepisce come il conseguimento del piacere, il culmine di un desiderio, oppure come il comfort o il benessere materiale, ma difficilmente si relaziona con la pratica del dono di sé.

È necessario constatare che questi modi di concepire la felicità umana provocano un vero malessere dello spirito, perché quando uno ottiene un piacere che in teoria gli dia la felicità o il comfort che doveva garantirgli tale felicità, sperimenta un profondo vuoto e si rende conto che la felicità si trova in un altro luogo.

Siamo dono e siamo fatti per il dono. Ci è stata data una natura e sentiamo, dalla vocazione originaria, la chiamata a dare ciò che siamo, ma questa chiamata si scontra con un ostacolo fondamentale: l’ego. L’ego non è un dono, né una realtà tangibile, nemmeno è qualcosa che abbia un’entità in se stessa. È una tendenza, un vettore, una forza che si oppone al movimento del dono di sé, come una specie di resistenza fondamentale, atavica, che impedisce il processo del dono gratuito.

Per approfondire questa nozione del dono di sé è fondamentale sottolineare la prospettiva di Don Bosco. San Giovanni Bosco utilizza il binomio lavoro e temperanza per illuminare la questione. Con la parola lavoro si riferisce al dono, all’esercizio del darsi, attraverso l’azione. Con la parola temperanza si circoscrive l’ascesi interiore, l’esercizio di trascendenza dell’ego che esige, per forza, l’atto di donarsi. Entrambi elementi ci configurano a Cristo (Art. 34 della Carta dell’Identità Carismatica).

Secondo Albert Einstein, l’esigenza di liberarsi dall’ego è un messaggio comune ed universale in tutte le religioni e non esclusivo del cristianesimo. Il proposito di tutte loro è liberarsi dall’ego, visto che solo così è possibile superare la visione frammentata e dualista della realtà; solo così è possibile praticare la benevolenza universale e la gratuità, sentire veramente compassione per l’altro, allargare i limiti del proprio io per collegarsi con l’esperienza fondamentale dell’altro. La compassione esige, come condizione possibile, l’esercizio della liberazione dell’ego, perché è impossibile condividere il cum della compassione, se l’ego non trascende il suo mondo ed empatizza con il destino dell’altro.

Di fronte alla dinamica egocentrica che rinchiude l’essere umano nel suo piccolo e angusto mondo, c’è la dinamica dell’amore, che lo entusiasma, lo apre agli altri, a dare il meglio di se stesso. Scrive Søren Kierkegaard: “L’amore non cerca il ‘suo’: perché nell’amore non c’è né il mio né il tuo. Ebbene, mio e tuo non sono che una determinazione relativa al ‘proprio’; per cui, se non c’è né mio né tuo, nemmeno c’è qualcosa di proprio; e non essendoci nulla di proprio è, senza dubbio, impossibile cercare il ‘suo’”[1].

La via della felicità e dell’armonia sociale transita, necessariamente, per la liberazione dell’ego. Questa esigenza trascende gli universi religiosi ed unisce, profondamente, tutti gli esseri. Per questo, scrive il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar: “Qualsiasi persona che, anche fuori dal cristianesimo, voglia rompere la sua strettezza egoista e fare il bene per il bene, riceve una luce che gli indica una via che può e deve seguire, luce che allo stesso tempo gli rivela la verità e una vita più dinamica[2].

La vera spiritualità è dono di sé, è apertura che trascende la tendenza egocentrica. Ciò ci richiede di discernere in ogni momento quello che dobbiamo fare. Scrive Papa Francesco: “Il discernimento non è un’autoanalisi presuntuosa, un’introspezione egoista, ma una vera uscita da noi stessi verso il mistero di Dio, che ci aiuta a vivere la missione alla quale ci ha chiamato per il bene dei fratelli” (GE 175).

  1. Uscire da se stessi: cammino di santità

 Uscita da se stessi è una delle espressioni più utilizzate da Giorgio Mario Bergoglio durante il suo magistero pontificio e che egli applica a diversi ambiti e realtà.

Esprime un movimento, o meglio ancora, un atteggiamento di fronte alla vita, un modo di essere e di stare nel mondo. Consiste nel decentrarsi, nel dimenticarsi di se stessi, del proprio mondo personale per aprirsi al mondo dell’altro. Non significa, in nessun caso, la negazione della propria identità, ma il superamento dell’autoreferenzialità e del narcisismo.

Uscire da sé costituisce un doppio movimento, sia dal punto di vista fisico che nel senso spirituale del termine. Non solo significa spostarsi ad un altro luogo, conoscere un’altra terra, dare ascolto ad una nuova geografia, ad un nuovo linguaggio, ma anche essere capaci di sommergerci in altre categorie intellettuali, in un altro universo linguistico e spirituale, in definitiva, penetrare un altro quadro di riferimento. Questo movimento è intrinseco allo spirito della missione.

Uscire da se stessi è, nel senso stretto della parola, un’operazione estatica. Estasi, nel senso più genuino del termine greco, evoca questo movimento di uscita verso l’esterno di uno stesso, verso l’alterità. In chiave spirituale, denota l’incontro con la Realtà assoluta, con l’Alterità indissolubile che l’essere umano incontra nel più profondo della sua interiorità e che, in nessun caso, si identifica con il suo io.

In riferimento a questo punto, risulta pertinente in questo contesto richiamare alla mente la figura di San Francesco di Sales e ricordare gli articoli 27 e 28 della Carta di Identità Carismatica della Famiglia Salesiana in cui si esplicita il triplice senso che lui attribuisce a questa espressione e che la spiritualità salesiana traduce come una spiritualità del quotidiano.

Nella filosofia di Sant’Agostino, si evidenzia come nella parte più intima dell’essere umano abiti il Cristo interiore, però solo chi esce dal suo mondo proprio e rompe il suo guscio di idee e di referenze, è capace di sperimentare tale incontro.

Una persona esce da se stessa quando è in grado di adottare la ‘forma di recipiente’, con un atteggiamento accogliente, e si lascia interrogare, interpellare e istruire dalla realtà che lo circonda. Il cristiano è chiamato ad uscire da se stesso, a negare il suo ego, così come viene espresso nel Vangelo e a donarsi al prossimo; anche la Chiesa è chiamata a realizzare questo movimento, ad uscire fuori da se stessa per irradiare Cristo nel mondo con una volontà missionaria. La chiusura individuale ha come conseguenza la povertà spirituale e la claustrofobia esistenziale.

In questo modo, l’uscita da sé, ricorda un doppio atteggiamento. Da un lato, denota la volontà di conoscere l’alterità, quello che si trova oltre l’io e il suo mondo (sentimenti, pensieri, ricordi, desideri profondi, problemi, illusioni), però, dall’altro, richiama la volontà di comunicare ciò che uno crede a proposito di questa nuova realtà. L’uscita da sé non è una funzione turistica, non risponde alla mera curiosità intellettuale. Non si tratta di uscire da se stessi perché si è stufi di ciò che si è, stanchi del proprio pantano e si sente il bisogno di vivere novità che riempiano di senso la propria esistenza.

L’uscita di sé, ha un altro scopo: rivelare quello in cui uno crede, irradiare Cristo nel mondo, essere strumento di pacificazione, ma questo è possibile solo se uno ha l’audacia di uscire dal recinto che conosce, dal territorio che domina e che controlla ed assume il rischio di fallire, di lasciarsi ferire o burlare.

In effetti, l’audacia è la virtù indispensabile per realizzare questo movimento e si oppone radicalmente all’essere privi di volontà o forza d’animo. Il pusillanime teme sia di fallire, che di spezzarsi o di essere ferito e preferisce non uscire dal proprio mondo, dai propri schemi mentali. Vive in una piccola bolla intellettuale, protetto, al riparo, però non conosce la novità radicale di Dio, perché preferisce mantenersi nell’immagine comoda di Dio che lui stesso si è plasmato.

Scrive Papa Francesco: “Dio ci supera infinitamente, è sempre una sorpresa e non siamo noi a determinare in quale circostanza storica trovarlo, dal momento che non dipendono da noi il tempo e il luogo e la modalità dell’incontro. Chi vuole tutto chiaro e sicuro pretende di dominare la trascendenza di Dio” (GE, 41).

L’audacia è la virtù che ci predispone ad assumere rischi, ad affrontare l’incognito, a scrutare nei limiti, a varcare le frontiere. Questa è la virtù che riconosciamo nei grandi spiriti missionari che, durante la storia della Chiesa, sono arrivati ai confini della terra, per comunicare il messaggio di liberazione di Cristo a tutti gli essere umani. Per uscire da sé, sia a livello individuale come ecclesiale, è indispensabile assumere rischi, ad essere disposti a sbagliarsi e ad apprendere dagli errori commessi.

Sembra opportuno, in questo momento far riferimento alla stessa storia di Don Bosco e il suo legame con la città di Torino. Precisamente questo luogo dove ci troviamo, in pieno secolo XIX, era allora una periferia della città di Torino. Don Bosco si è sentito chiamato a vivere tra i giovani più poveri ed abbandonati, assumendo tutti i rischi che questo supponeva. Con questo passo audace ha dato origine ad un nuovo stile di presenza, di relazione, di proposta educativa ed evangelizzatrice nel mondo giovanile. Un carisma, questo, presente oggi in tanti luoghi del mondo.

Per uscire da sé risulta indispensabile utilizzare il linguaggio adeguato. Solo se uno è recettivo al linguaggio che si impiega nelle periferie, sarà in grado di comunicare convenientemente con gli esseri umani che abitano in quelle ‘frontiere’. Per questo motivo è essenziale essere attenti, essere recettivi, capire le categorie intellettuali che lì si utilizzano per tradurre, in un secondo momento, il proprio messaggio in un linguaggio che risulti significativo. Questo compito è fondamentale ed è stato una costante nella storia delle missioni. Difatti, molti missionari sono stati pionieri nel momento dello studio delle lingue e della grammatica dei popoli la cui cultura si trasmetteva e, in molti casi si continua a trasmettere, in modo orale.

L’uscita da sé, dunque, oltre all’audacia esige l’adeguamento. Adattarsi al destinatario è indispensabile per arrivare a lui e comunicargli qualcosa che sia significativo per lui, che susciti qualche risonanza nel suo interiore. All’uscire da se stessi, dal proprio linguaggio e dalle proprie categorie, sente vertigine, diventa fragile perché dubita della sua traduzione, si chiede se il suo modo di comunicare il messaggio esprime fedelmente quanto crede o se viene alterato significativamente mediante l’esercizio della traduzione.

L’ostacolo principale per l’uscita di sé, oltre alla pusillanimità, è il puritanesimo, il timore a contaminarsi quando uno abbandona le proprie categorie intellettuali per arrivare all’altro e comunicare un messaggio che sia significativo. La rigidità intellettuale, l’inflessibilità e il timore di perdersi nell’ambiguità, ha come conseguenza finale la ripetizione delle stesse cose, con le stesse categorie che possono essere utili nel proprio ambito sociale e culturale, però, in cambio, completamente irrilevanti ed incomprensibili nelle periferie.

L’idea di uscire da sé si relaziona strettamente con la cultura dell’incontro e con la nozione del dialogo. In effetti, l’incontro interpersonale richiede l’uscita da sé da parte di entrambi gli interlocutori. Solo se ambedue escono dal proprio mondo e si dispongono a rivelare quello che realmente sentono e pensano si ottiene l’incontro.

Il dialogo richiede un’alternanza tra l’uscita da sé e la recettività. Solo se uno accoglie la parola dell’altro nella propria interiorità può rispondere alle sue inquietudini e instaurare una vera comunicazione dialogica. L’emissore esce da se stesso e comunica il messaggio, però questo può essere accolto solo se il recettore si svuota da se stesso e si dispone ad accoglierlo nella sua interiorità. Questo processo di alternanza è intrinseco all’esercizio del dialogo.

Uscire da sé, però, perché? Uscire per annunciare, per sanare, per consolare, per insegnare. Questo significa uscire, pensando anche alla possibilità di non essere sempre ricevuto bene. Questo movimento è costantemente riferito alla storia della Salvezza.

I personaggi biblici escono dal proprio contesto, della propria situazione, obbediscono alla chiamata di Dio che li interpella al movimento dell’uscita. È il caso paradossale di Mosè. Il Patriarca ascolta una voce che lo invita ad uscire, con il suo popolo, dalla terra d’Egitto.

L’esodo del Popolo di Israele è la prima espressione di questa uscita cercando la liberazione da qualsiasi forma di oppressione. L’uscita da sé ha una causa efficiente: la chiamata di Dio. È Dio che chiama ad uscire verso le periferie, a decentralizzarsi, a dedicarsi agli altri, ad abbandonare le sicurezze del proprio mondo per donarsi al prossimo.

In un piano strettamente teologico, l’uscita da sé è un’operazione che ha luogo nella dimensione della stessa divinità. Dio, al creare il mondo, esce da sé, fa emergere una realtà dal nulla (ex nihilo) e, attraverso la stessa, manifesta il suo essere, però Dio non solo crea, ma si rivela nella storia.

La rivelazione si può interpretare anche in questa chiave: Dio comunica la sua Parola al mondo, fa conoscere i suoi disegni divini all’umanità, la rende partecipe della sua verità. Esce da sé per elevare l’uomo al piano divino, gli comunica il cammino della salvezza.

Questo uscire da sé o movimento estatico di Dio non obbedisce a nessun bisogno o carenza da parte di Dio stesso, perché contraddirebbe la sua natura. È un’espressione del suo amore, un frutto del suo amore, perché l’amore è diffusivo e comunicativo per se stesso. Chi ama, dona se stesso, esce dal proprio guscio per liberare l’altro, per sanare le sue ferite.

Il culmine del movimento estatico di Dio è l’incarnazione del Figlio. Dio Padre invia il Figlio al mondo per donarsi pienamente all’umanità e salvarla. Questa uscita di sé finisce con la passione e con la morte in croce del Figlio di Dio. Dio, all’uscire da se stesso, all’incarnarsi, assume la condizione umana e tutto ciò che comporta, la finitudine, la limitatezza, l’indigenza e tutte le proprie manifestazioni come il dolore, la fatica, la disperazione e la solitudine; si fa uno di noi senza abbandonare la sua natura divina.

  1. Le periferie dell’esistenza e del mondo

Una categoria strettamente relazionata con l’uscita da sé è la nozione di periferia. Il cristiano è chiamato ad uscire da se stesso per andare verso le periferie. La periferia è quel territorio che si trova oltre al limite di ciò che è conosciuto, situato alle frontiere della cartina geografica, lontano dal centro di gravità. Uscire da sé per andare alle periferie richiede l’audacia di addentrarsi in territori pericolosi nei quali non si conosce esattamente ciò che si potrà incontrare.

Periferie del mondo è un’espressione che ha un senso strettamente fisico, geografico. Papa Francesco si riferisce con essa a quegli spazi e territori del mondo in cui si soffre, dove il dolore e l’indignazione si manifestano con grande intensità. Ci riferiamo a queste zone del pianeta castigate dalle guerre, dai genocidi, dove si soffre la fame, la siccità, le dittature, i disastri ecologici, la violenza o la droga con le sue conseguenze drammatiche che colpiscono soprattutto i gruppi più vulnerabili della società, tra i quali i bambini ed i giovani.

Anche periferie dell’esistenza è una delle espressioni che ha avuto più risonanza nel magistero di Papa Francesco. Non sono luoghi; nemmeno sono territori fisici. Sono tappe dell’esistenza, episodi di sofferenza, di solitudine e di disperazione che ogni essere umano può vivere durante il corso della sua vita. Nessuno è esente, perché la fragilità è intrinseca alla persona umana.

La vita umana, tale come la descrive il sommo pontefice, non è un continuum, nemmeno è qualcosa che si possa prevedere completamente. Esattamente il contrario. La novità sempre è in agguato. Accadono situazioni ed episodi che uno non si sarebbe immaginato, si vivono circostanze limiti che mettono in crisi ogni certezza e ogni speranza. Sopravviene la malattia, la crisi di fede, la frustrazione sul lavoro, l’ingratitudine, il dolore, il tradimento e l’infedeltà.

Il cristiano – e anche voi, membri della Famiglia Salesiana, per questa vostra vocazione specifica – è chiamato ad uscire da sé stesso, a transitare per le periferie dell’esistenza, per esser presente in quelle circostanze nelle quali il mondo sembra crollare addosso alle persone, dove la vita vacilla e uno si abbandona alla disperazione. In dette periferie dell’esistenza, è chiamato ad essere luce e fonte di speranza.

Nessuno desidera trovarsi nelle periferie dell’esistenza. Tutti preferiscono rimanere nel centro, dove ogni cosa è sotto controllo, dove tutto trascorre in modo ripetitivo. Proprio la Chiesa si sente chiamata a farsi presente non solo in modo superficiale, ma con la volontà di radicarsi, di rimanere, di trasformare questa realtà. Per questo è fondamentale la dinamica dell’incarnazione, con tutti i rischi che questo comporta.

Tuttavia, la funzione della Chiesa è quella di essere madre e maestra (mater y magistra), come indicò Papa San Giovanni XXIII, essere fonte di consolazione e di guarigione in queste situazioni periferiche. Esattamente nelle periferie dell’esistenza si rende più necessario che mai il linguaggio della speranza, ma è anche dove risulta più difficile pronunciarlo vista la situazione di vulnerabilità nella quale si vive.

Le periferie dell’esistenza sono, anche quelle che il filosofo e medico Karl Jaspers (1883-1969) definì situazioni limite (die Grenzsituationen): il dolore, la malattia, l’insuccesso, il disinnamoramento, la colpa, la disillusione, la morte propria e la morte di un essere amato. Quando una persona vive una di queste sofferenze, si abbatte, si complica la sua esistenza e si produce una rottura dei ruoli abituali, delle consuetudini quotidiane. In quel momento è quando ha bisogno, più che mai, di aiuto dagli altri, di appoggio incondizionato, di consolazione senza nulla a cambio, in definitiva, di un ‘ospedale di primo soccorso’ per curare le proprie ferite. La Chiesa è chiamata ad essere un ospedale di primo soccorso che si installi, provvisoriamente, dove ci sono le periferie dell’esistenza, per alleviare il dolore, sanare l’anima e trasmettere speranza.

Nessuno desidera trovarsi nelle periferie del mondo e, nonostante ciò, il pianeta è popolato di queste aree di sofferenza. Proprio in questi luoghi è più necessario che in nessun altro, la speranza e la consolazione.

La Chiesa in uscita che Giorgio Mario Bergoglio promuove ha una doppia funzione. Da un lato deve curare ed alleviare ferite, dall’altro deve trasmettere il messaggio liberatore e di speranza del Vangelo. Questa è la chiamata che hanno vissuto i fondatori degli istituti e dei movimenti ecclesiali. Questo mandato di Papa Francesco consiste, in fondo, nel ritorno alle origini, ma attraverso i nuovi contesti del mondo attuale.

Papa Francesco pone l’accento sul fatto che la Chiesa non è un’organizzazione non governativa (ONG) di carattere assistenziale. Si trova nel mondo per irradiare Cristo, per comunicare la sua luce e il suo messaggio e per questo deve essere madre e maestra, ospedale di primo soccorso ma anche faro trasmettitore di speranza nella resurrezione.

È compito delle istituzioni educative far conoscere queste periferie del mondo affinché i cittadini più giovani siano consapevoli di questo e non soccombano alla globalizzazione dell’indifferenza. È essenziale lottare contro l’ignoranza, contro la delinquenza e contro l’emarginazione con le armi dell’educazione per evitare la riproduzione di maggiori periferie nel mondo.

Siamo chiamati, tutti, laici, religiosi, presbiteri, ad essere e a vivere questa missione che è il cammino della santità, un cammino che non è proibito a nessuno, che ognuno può percorrere nella propria condizione, con le proprie risorse, talenti ed energie vitali, ma che solo si può portare a termine se si è sostenuti, in ogni istante, da Dio.

[1] S. KIERKEGAARD, Las obras del amor, Sígueme, Salamanca, 2006, p. 320. La cursiva es del autor danés.

[2] H. U. VON BALTHASAR, Teodramática, t. 3, Encuentro, Madrid, 1993, p. 484.